Se il fallimento dell’Unione è colpa di Chirac

Egidio Sterpa

È chiaro, l’Europa così com’è stata finora ormai non c’è più. O la si rinnova completamente e in profondità o il declino è inarrestabile. Occorre uscire dalla visione statica che ne ha fatto una entità bastarda, né economica né tanto meno politica. «Un’Europa molle», ha detto Borrell, presidente dell’Europarlamento. È così, non c’è dubbio. I colpevoli di questa involuzione? Sono molti, ma di sicuro soprattutto la Francia, che da sempre ha creato difficoltà, e ora con Chirac addirittura le ha aggravate. Qualche responsabilità ce l’ha pure Schröder, che si è illuso di riconquistare un primato alla Germania con l’intesa franco-tedesca. La crisi è dovuta formalmente a motivi economici, ma nella sostanza è tutta politica. L’euroscetticismo britannico è scontato, ma francamente è fuori misura addebitargli il disastro attuale. L’Italia in questa occasione è stata ragionevole e coerente con la sua tradizionale politica europeista. Berlusconi ha fatto benissimo a evitare giudizi drastici. Un po’ ha esagerato Tremonti quando ha parlato di «aria da funerale». La frase del Cavaliere - «non è un dramma il mancato accordo, pensiamo al futuro» - è espressione di saggezza. C’è da augurarsi che sia l’anticipazione di una nostra nuova e profittevole politica europea. La caduta franco-tedesca offre spazi ad iniziative italiane, che potrebbero dar luogo perfino a una nostra leadership in ambito comunitario. È un tentativo molto serio da fare, come qui abbiamo già ipotizzato. Il nuovo ruolo italiano è quello che gli inglesi chiamano «pivotel power», cioè di mettersi al centro per proporre e guidare una soluzione.
Si tratta di preparare e sviluppare un’azione diplomatica accorta ed efficace. È una parte che spetta soprattutto al premier, ma deve vedere i ministri, primi fra tutti La Malfa, il quale ha una sua credibilità che va valorizzata, e Fini, nuovo alla diplomazia ma dimostratosi assai attivo e voglioso di successi. Si cominci subito ad attivare a questo scopo i nostri diplomatici presso i 25 Paesi dell’Unione. Soprattutto i dieci nuovi membri dell’Ue, che hanno sorpreso dichiarandosi pronti a sacrifici, vanno consultati e motivati per una politica europea nuova. Non c’è presunzione in un disegno del genere. L’Italia è tra i fondatori dell’Unione, si è comportata sempre con grande correttezza, non ha mai profittato come altri Paesi dei contributi assistenziali, anzi, né s’è mai tirata indietro di fronte a impegni comunitari, ha sempre coltivato buoni rapporti con i vari partner. Il prossimo semestre la presidenza del Consiglio d’Europa tocca alla Gran Bretagna. La posizione britannica favorevole a destinare contributi alla modernizzazione del sistema economico europeo più che al mondo agricolo, e soprattutto ai contadini francesi, non è da considerare del tutto negativa. Che il mondo agricolo assorba il 40 per cento delle risorse europee è più un elemento di squilibrio che di progresso. Con Blair l’Italia ha un buon rapporto. Si tratta di renderlo operativo, il che non significa, ovviamente, subire gli effetti dell’euroscetticismo britannico. Tra due anni a Parigi ci sarà certamente un governo diverso (Sarkozy, per esempio), così all’Aia, e presto anche a Berlino, dunque i presupposti per una presenza più attiva dell’Italia nel mondo comunitario ci saranno più di oggi.
La costituzione dell’Unità Europea non può procedere con continui «stop and go», che oltre tutto hanno provocato disaffezione nei popoli e rischiano di disilludere e scoraggiare gli Stati più interessati a realizzare l’unità politica. I veti e gli egoismi nazionalistici stanno disintegrando l’Europa. Ci vogliono idee nuove, intelligenza politica, coraggio d’intrapresa per attuare un rilancio.

Sì, l’Italia provi a diventare il «pivotel power» di questo ineludibile tentativo.

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