Economia

Se incentivi fa rima con palliativi

Sono tornati gli incentivi per la rottamazione delle auto. Ma la misura è insufficiente, perché non è corrisposta dalla stesura di un piano iindustriale da parte di Fiat, l'unico produttore nazionale

Alla fine, sono arrivati. O, meglio, sono tornati. Stiamo parlando degli incentivi per l'auto, che in questa edizione sono stati abbinati a  quelli per gli elettrodomestici. La formula del bonus, indipendentemente dall'entità dell'importo, per smuovere il mercato dell'automobile - come sappiamo - non è nuova. E non è neanche male in sé, in quanto si porta a corredo anche il vantaggio, oltre che economico, di ripulire, almeno in parte, strade e traffico dalla presenza di veicoli obsoleti ed inquinanti, attraverso la rottamazione. Quindi, sotto questo doppio profilo, ben venga l'incentivo. Ma, diciamoci la verità, in questa fase di crisi da profondo rosso dell'intero sistema paese e dell'economia mondiale a tutto tondo, ci aspettavamo un po' di più da parte del governo. Si, perché qui ed oggi il problema non è tanto ridar fiato a un mercato ormai saturo - quello automobilistico - ma è, piuttosto e per sfortuna, tentare di evitare il fallimento della più grande e grossa azienda italiana - la Fiat - , che si identifica, per buona parte, con l'industria nazionale. In altre parole, ci troviamo di fronte a una vera e propria rivoluzione dell'intera industria automobilistica mondiale, tanto quanto quelle - anzi: di più - del 1973 e del 1980. Una crisi che, come intende il senso etimologico del termine, darà inevitabilmente la stura a un cambiamento, sia pur forzoso e forzato, dei costumi degli automobilisti e richiederà adeguata (e aggiungeremmo rapida) risposta da parte dei costruttori. I quali dovranno finalmente riporre nel cassetto i progetti di auto sempre più potenti, pesanti, veloci e , per dedicarsi alla progettazione, sviluppo e produzione di quattroruote più leggere, contenute nelle dimensioni e dotate di tecnologie meccaniche che guardano al futuro. Bene, questa necessità imposta sembra essere stata avvertita, accettata se non ancora metabolizzata, nei due paesi che, a livello mondiale, non solo fanno mercato ma indirizzano e condizionano le politiche generali in ambito automobilistico: Stati Uniti e Giappone. Per quanto riguarda il secondo, l'impegno sul fronte, diciamo così, ecologico, coincide con gli albori dell'industria automobilistica nipponica. E non è un caso se da oltre trent'anni il mercato Usa è stato invaso dagli affidabilissimi prodotti nipponici. Del resto, la tecnologia, con l'accoppiamento di due motori diversi (benzina-elettrico) sotto lo stesso cofano - oggi indubbiamente la più performante, sia in termini di efficacia sia di efficienza, è roba loro (Honda e Toyota in primis). E per gli States, la prova è sotto gli occhi di tutti. Ce l'hanno data, non a caso a cavallo del passaggio delle consegne tra il presidente uscente Bush e quello eletto Obama, sia il Parlamento sia i mezzi di comunicazione di massa d'Oltreatlantico. Quando hanno chiesto e preteso, risolutamente, che le richieste economiche e finanziarie dei tre colossi (d'argilla) di Detroit - General Motors, Ford e Chrysler - fossero concesse solo a fronte di adeguati piani industriali per rinnovare (sarebbe meglio dire: ribaltare) la produzione dei vari. Peccato che in Italia non sia successa e non stia succedendo la stessa cosa. Incentivi, si diceva. Punto e basta. E perché un intervento di sostegno all'asfittica (nonostante il monopolio!) industria automobilistica nazionale (leggi sempre Fiat) non è stato accompagnato da una parallela richiesta di un serio (si, abbiamo detto: serio) piano industriale che vada incontro alle nuove esigenze/necessità del mercato? Niente di tutto ciò. Ahinoi, la storia è sempre quella. Con il Dottor Marchionne è cambiata - forse - l'orchestra, ma la musica è rimasta quella di quando c'era Agnelli: privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite. Ma possibile che nessuno, in corso Marconi, avesse previsto il crollo del mercato nazionale (e non solo) che sta caratterizzando questi mesi? E i supermanager del caso, che ci stanno a fare?!? Forse la risposta è più semplice di quel che si pensi. Infatti, c'è sempre Pantalone (leggi popolo italiano) che paga.

Volente o no.

Commenti