Se Israele vede uno spiraglio

Livio Caputo

Se, come tutto lascia prevedere, il 28 marzo il partito Kadima fondato da Ariel Sharon vincerà le elezioni israeliane e il nuovo governo palestinese formato da Hamas manterrà il suo rifiuto di riconoscere lo Stato ebraico e rinunciare alla lotta armata, ci troveremo di fronte a una situazione completamente nuova: un Israele deciso a realizzare (sia pure alle sue condizioni) il progetto di «due popoli, due Stati» perseguito dalla comunità internazionale, e una Autorità nazionale palestinese che, risoluta a eliminare la «entità sionista» da una terra riservata dal Corano ai musulmani, vi si oppone per principio. È esattamente il contrario di quanto accadeva 10 anni fa, quando erano gli israeliani a temere uno Stato palestinese e i palestinesi a volerne uno.
Le intenzioni israeliane sono molto chiare: smantellare un certo numero di insediamenti in Cisgiordania (si parla di 17, con un totale di 15mila coloni da sgomberare), mantenere i quattro più importanti con 220mila abitanti e fissare unilateralmente il confine tra i due Stati, inglobando circa un decimo dei Territori e completando la barriera di separazione che impedisce l’ingresso ai terroristi suicidi. Una volta attuato questo piano, Israele sarà in condizione di attendere le decisioni di Hamas in una situazione ottimale: se i fondamentalisti, incapaci di sopravvivere senza gli aiuti dell’Occidente, finiranno con l’accedere alle condizioni poste dalla comunità internazionale, si potranno riprendere le trattative per un accordo di pace nella cornice della road map; se, al contrario, decideranno di arroccarsi sulle attuali posizioni di intransigenza e di sopravvivere con i soli sussidi del mondo islamico radicale, lo Stato ebraico trasferirà all’Anp tutte le competenze che gli rimangono - riscossione delle tasse e dei tributi, controllo delle frontiere, forniture di acqua ed elettricità - e sigillerà le frontiere. C’è, evidentemente, il pericolo che una Palestina sotto Hamas si trasformi in uno Stato terrorista, ma Israele è convinto non solo di poterne venire a capo, ma anche che, in questo caso, avrà finalmente il sostegno pressoché incondizionato dell’Occidente e, di conseguenza, mano libera per eventuali rappresaglie. «La simpatia internazionale per la causa palestinese dipende soprattutto dal fatto che il suo popolo è senza Stato» scrive il Jerusalem Post. «Il giorno in cui questo Stato ci fosse, ma si allineasse con l’Iran e magari con Al Qaeda» almeno a livello di Cancellerie questa simpatia verrebbe meno. In ogni caso, il contenzioso si risurrebbe alla definizione dei confini.
Il nuovo primo ministro Olmert ed i suoi alleati (che in questo momento sembrano avere il consenso di buona parte dell’elettorato, anche se la destra si oppone allo sgombero di altri insediamenti senza una contropartita certa) pensano così di volgere a proprio vantaggio l’esito delle elezioni palestinesi, che sul momento era stato accolto come una sciagura. Più Hamas insiste nel suo rifiuto ideologico, quasi fideistico, di accettare l’esistenza dello Stato ebraico e rinnegare gli accordi già conclusi - è il loro ragionamento - più Gerusalemme ha libertà di manovra. Gli uomini di Kadima seguono perciò con molta apprensione i primi cedimenti che si sono verificati nel Quartetto - in particolare in Russia e nell’Unione Europea - circa i rapporti con Hamas. Nessuna obiezione, ovviamente, agli aiuti necessari a scongiurare una catastrofe umanitaria che non sarebbe nell’interesse di nessuno, ma forte irritazione per il modo in cui una parte di questi aiuti vengono incanalati: l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i campi profughi, è per esempio considerata troppo vicina ad Hamas, e troppo infiltrata da potenziali terroristi, per essere affidabile.
Gli israeliani, comunque, stanno cercando di persuadere la comunità internazionale che, alla lunga, il sostegno finanziario all’Anp - dieci miliardi di dollari in altrettanti anni - è stato controproducente, nel senso di sollevarla dalle sue responsabilità, favorire la corruzione e abituarla a risolvere i suoi problemi a spese altrui. Solo quando le valutazioni economiche entreranno a far parte a pieno titolo dei processi decisionali di Ramallah diminuirà la possibilità di scelte irresponsabili, come fu la seconda Intifada e come sarebbe ora una ripresa del terrorismo.
Se gli eventi prenderanno la piega auspicata rimane da vedere.

Fatto è, tuttavia, che per la prima volta la maggioranza degli israeliani intravede la possibilità di una soluzione definitiva del conflitto, non certo ideale, ma accettabile.

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