Se l’eutanasia nasconde una falsa pietà

Maurizio Lupi*

Può l’eutanasia, la «dolce morte», diventare un diritto stabilito per legge? Il dibattito si è aperto con la drammatica lettera di Piergiorgio Welby al Capo dello Stato ed è proseguito dagli interventi di politici, medici ed intellettuali. Il punto centrale, però, sembra essere un altro: basta un caso, un solo caso umano, per sostenere inequivocabilmente che lo Stato deve intervenire per regolamentare questa delicata materia? Per decidere, per legge, quando e come un vita sia degna di essere vissuta? A giudicare dall’invito del Presidente della Repubblica sembrerebbe di sì. Ma Napolitano sbaglia, perché dimentica, che la vita è molto di più di un processo biologico da regolare per legge.
Parlare oggi di un «diritto alla morte» significa dimenticare la principale caratteristica di ogni vita umana: essa è un dono. Abbiamo forse mai ottenuto un diritto a vivere? Siamo forse nati per un progetto di legge? L’intangibilità della vita umana è un mistero al quale anche la politica deve, necessariamente, sottostare. Sembra quasi di essere tornati indietro nel tempo, nella Germania dei primi anni del secolo scorso quando, durante la prima Guerra Mondiale, qualcuno arrivò addirittura a teorizzare «l’eutanasia di Stato». Nel 1920, addirittura, apparve un libro scritto dal giurista Karl Binding e dallo psichiatra Alfred Hoche dal titolo emblematico: L’autorizzazione all’eliminazione delle vite non più degne di essere vissute. Il malato incurabile era, secondo gli autori, portatore di sofferenze personali, ma anche sociali ed economiche.
Certo, nessuno oggi è così temerario da sostenere che uccidere una persona provochi un vantaggio economico, ma il clima di indifferenza che si respira attorno al tema della vita e della morte è impressionante. Molti, forse per quietare la propria coscienza, preferiscono non parlare di eutanasia e si abbandonano a interessanti dissertazioni sul rispetto della libertà e della volontà del paziente. Ma quale? Quella di Welby che trasforma il suo dolore in disperazione o quella di Ambrogio Fogar che, come ha raccontato ieri sua sorella, immobilizzato su un letto di ospedale, fece di tutto per dare coraggio e forza a chi non aveva più ragioni per vivere? Per questo credo che il dibattito intorno all’eutanasia sia, in realtà, una falso dibattito. Se proprio vogliamo aprire un confronto serio in Parlamento, discutiamo di come alleviare la sofferenza: parliamo, ad esempio, di testamento biologico, che però non deve essere, come accaduto in Olanda, una scorciatoia per arrivare alla «dolce morte».
Il Parlamento può affrontare temi eticamente sensibili a patto che siano chiari i paletti fissati dalla nostra Costituzione che sancisce, senza mezzi termini, che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Cioè, prima di tutto c’è la vita. E questo significa, non solo rifiutare il «diritto alla morte», ma anche il principio dell’accanimento terapeutico. Il Codice di Deontologia medica approvato nel giugno del 1995 è chiaro: «Il medico, anche se richiesto dal paziente, non deve effettuare trattamenti diretti a menomarne l’integrità psichica e fisica e ad abbreviarne la vita o a provocarne la morte».


Il Santo Padre Giovanni Paolo II ne parlò nella sua enciclica Evangelium vitae: «Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante perversione di essa: la vera compassione, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprimere colui del quale non si può sopportare la sofferenza».
*Parlamentare di Forza Italia

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