Se l’Unione si convince che Veltroni sia Mandrake

Anche a costo di deludervi, vi confesso di aver votato Walter Veltroni a Roma in entrambe le occasioni nelle quali si è candidato a sindaco. L’ho fatto per ragioni di stima e simpatia personale facilitate dalla natura amministrativa delle elezioni ed anche dalla sensazione avvertita, a torto o a ragione, che al centrodestra non importasse più di tanto contrastarlo, non avendogli contrapposto un concorrente adeguato. Avrei votato in modo diverso se si fosse stato candidato contro di lui, per esempio, Gianni Letta o Gianfranco Fini.
Da una lettura attenta dei risultati elettorali delle amministrative romane risulta che sono stati parecchi i voti raccolti da Veltroni al di fuori dello schieramento che lo aveva proposto al Campidoglio. Egli ha rappresentato a livello capitolino quello che gli esperti chiamano un «valore aggiunto». Al quale molti nella presunta Unione guidata nelle ultime elezioni politiche da Romano Prodi pensano probabilmente di potersi aggrappare la prossima volta a livello nazionale, nel tentativo di rimediare alla delusione, alla rabbia, al panico e a quant’altro di negativo è riuscito a seminare l’attuale presidente del Consiglio nel primo anno del suo secondo governo. Ma se questo è il calcolo dei furbetti del Botteghino che hanno spinto Veltroni verso la segreteria del costituendo Partito democratico, peraltro dopo averne contrastato l’ipotesi sino a qualche settimana fa, temo per lui, e spero per loro, che la scommessa sia sbagliata.
Per quanto abile nell’arrotondare gli spigoli e nel raccordarsi a tutti, vivi e morti, Veltroni non è Mandrake. Quella che gli è stata affidata mi sembra una missione impossibile, non potendo neppure lui liberare la sua coalizione da quell’autentica zavorra politica che è la sinistra antagonista, arroccata in una visione della società antistorica. Nel consegnarsi a Veltroni la coalizione ridotta da Prodi in brache di tela proprio per accontentare la sinistra estrema non lo ha in fondo sottratto ai progetti africani coltivati dal sindaco di Roma in vista dell’esaurimento del suo mandato capitolino e rinfacciatigli dal nostro Mario Sechi. L’Italia in realtà sta sprofondando in Africa con il modo di governare di Prodi, che di europeo ormai ha solo la suoneria del telefonino, della quale si è vantato dopo il recente vertice comunitario di Bruxelles per spiegare, poverino, il contributo che vi aveva apportato.
Ciò non significa tuttavia che il centrodestra possa dormire tra i classici due guanciali, magari ironizzando su taluni aspetti del cosiddetto veltronismo che in effetti vi si prestano.

Aveva ragione Fini ad ammonire già sabato scorso i suoi alleati in una intervista a non commettere «l’errore strategico d’immaginare la futura campagna elettorale contro Veltroni come fosse una campagna elettorale contro Prodi».

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