«Il problema è questo: che si è man mano consolidata e moltiplicata una popolazione che vive di politica e che non sa fare altro. Se perde il posto o le entrature nella “città del potere”, allora resta disoccupato: o politica o fame. È evidente che la politica come professione è una inevitabile conseguenza della entrata in politica delle classi povere. Finché l’accesso al potere era ristretto ai benestanti, il cosiddetto “politico gentiluomo”, non si faceva pagare. Non ne aveva bisogno. Ma i nullatenenti, invece, sì».
Se qualche distratto commentatore di edicola televisiva dovesse leggere questo brano senza accorgersi che è aperto e chiuso da virgolette, potrebbe anche gridare al fascista, ovvero: guardate cosa scrivono sul Giornale, che la politica è meglio la facciano i ricchi, perché i poveri sono più facilmente corrompibili e corruttibili. Invece il brano citato è stato pubblicato sul Corriere della Sera di ieri, nell’editoriale di Giovanni Sartori. L’illustre politologo non intendeva davvero sostenere che è meglio tornare all’aristocrazia: voleva soltanto spiegare tecnicamente l’origine di un problema. Tuttavia la rudezza che ha adoperato è uno straordinario indicatore di come anche ai piani alti del pensiero si sia arrivati a un disprezzo dei politici - non della politica - raramente raggiunto prima di oggi.
Non a caso l’articolo di Sartori si chiude con un’invettiva contro «la stupidità della sinistra, allora di D’Alema e di Violante» che avrebbe «consegnato il Paese a Berlusconi regalandogli tutta o quasi tutta la televisione». Così il quadro è completo: politici poveri corruttibili e corrotti, politico ricco corruttore e corrotto, politici di sinistra stupidi: e che lo siano anche quelli di destra, a Sartori non occorre neanche scriverlo.
E sia. Ma anche il più timido e sottomesso allievo del professore potrebbe obiettare che, con la teoria del «politico-povero-dunque-corrompibile-origine-di-tutti-i-problemi», insieme all’acqua sporca della politica, si butta via anche il bambino: ovvero la democrazia. La quale consiste appunto nel dare modo a tutti di partecipare alle decisioni collettive, quindi di scalare il potere. A questo punto, insomma, bisogna per forza citare la celeberrima frase di Winston Churchill per cui «la democrazia è la peggiore forma di governo, eccetto tutte le altre sperimentate finora». Trattasi però di una frase logora e non abbastanza antipolitica. Si potrebbe suggerire, dunque, un ricco campionario di citazioni più allettanti. Questa di Otto von Bismarck, per esempio: «Il suffragio universale è il governo della casa affidato alla nursery». Oppure quest’altra, di Louis Latzarus: «La democrazia è l’arte di far credere al popolo che esso governi».
Con questi giochi di parole non si va lontano, d’accordo. Ma non si va lontano neanche con tecnicismi e problemi di stretta contingenza, come quello posto da Sartori: «Qual è, allora, lo scandalo italiano? È che non abbiamo il voto di preferenza. Lo avevamo, ma a furor di popolo venne cancellato da due referendum». Aborro anch’io la mancanza di un voto di preferenza, certo, ma non c’è dubbio che, quando lo riavremo, non si potrà impedire ai poveri di votare altri poveri: corrompibili.
Tutto sommato, la democrazia ha problemi molto maggiori da affrontare per curare se stessa. Si va, infatti, verso una sua progressiva riduzione in forme sempre più oligarchiche; oppure verso una sua radicalizzazione in forme sempre più populistiche (referendarie, telematiche ecc.), che però finirebbero inevitabilmente per assegnare un potere maggiore a un gruppo ristretto di persone in grado di sedurre le masse: di nuovo oligarchia, sempre più ristretta. A una simile democrazia «ridotta», però, non si potrà permettere di dimenticare il risultato principale ottenuto dalle democrazie nel secolo scorso, l’eredità delle tre L: libertà, liberismo, liberalismo.
L’articolo di Giovanni Sartori era intitolato «Una politica a corto di idee». Lo è, e continuerà a esserlo, fino a quando non rifletterà anche su questi temi, benché non riguardino né lo spread né la riforma elettorale.
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