Due anni fa, quando cominciò lazione penale per presunti e indimostrati fondi neri contro Marina e Piersilvio Berlusconi, rampolli del Cavaliere, si ebbe limpressione che il rito giudiziario ambrosiano ricalcasse schemi primitivi, in base ai quali il pregiudizio e laccanimento che inseguono il padre debbono ricadere sui figli. Schemi barbari, inadeguati a una democrazia e a uno Stato di diritto, eppure operanti, branditi come una clava minacciosa sul capo di due giovani manager colpevoli, si fa per dire, soltanto di portare un certo cognome per fatti che sarebbero stati commessi negli Anni Novanta del secolo scorso.
Linchiesta, diciamocelo, era la proiezione ereditaria della storia infinita di Mani pulite contro il Cavaliere secondo un certo schieramento politico-ideologico la tassa di successione va pagata sempre e comunque anche per i pregiudizi ma va detto che lavanzata su questa strada persecutoria sembrò eccessiva anche a qualcuno dei pubblici accusatori. E tuttavia la procedura è andata avanti, con rogatorie multiple che hanno scavalcato i sette mari e aperto le mille banche e che, ad ogni modo, hanno certificato il nulla. Perché evidentemente nulla cera e nulla cè.
Pur nel vuoto pneumatico, sia chiaro, il processo andrà avanti fino a quando un giudice a Milano non ne decreterà linconsistenza delle premesse, ma il rappresentante dellaccusa ha intanto chiesto larchiviazione delle accuse contro Marina e Piersilvio Berlusconi, contro i quali è stata raccolta e sistemata in tanti faldoni un bel po daria fritta. E come debbono sentirsi i giovani manager, contro i quali, secondo il loro avvocato, lazione non sarebbe dovuta nemmeno cominciare? Debbono forse sentirsi graziati o processualmente fortunati? La verità è che certe estensioni di responsabilità inesistenti o presunte per «porto legittimo di cognome» in un Paese civile non dovrebbero mai registrarsi.
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