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«Se sono a capo della Camera non è per un regalo di Silvio»

Roma«Avete capito?». La risposta non arriva, ma è quasi un silenzio assenso. «Meno male, allora non servono interpretazioni...». Gianfranco Fini ha il volto ancora teso, anche se tenta di strappare un sorriso ai cronisti che lo attendono nel cortile, quando sale in macchina e lascia gli studi Rai di via Teulada. In effetti, non c’è molto da aggiungere. E dinanzi a un Bruno Vespa che sembra infastidirlo un po’, quando insiste nel controcanto, il presidente della Camera va giù piuttosto duro - lo è di certo nei toni - e non solo per rispondere, indirettamente, sul nuovo caso politico apertosi con il Giornale.
È un’ora intensa, diciamo così, quella che si vive nel salotto di Porta a porta, terza tappa tv in quattro giorni. In cui l’inquilino di Montecitorio torna a sgombrare il campo da ipotesi ribaltoni o elezioni anticipate («cosa spiegheremo agli italiani?», «sarebbe irresponsabile»). Anche perché, «il logoramento non lo vuole nessuno: il presidente del Consiglio lavorerà affinché non ci sia ed è ovvio che io farò la stessa cosa». Allo stesso tempo, l’ex leader di An difende a spada tratta il suo fedelissimo, Italo Bocchino, a un passo dal rimettere in maniera definitiva il mandato di vicepresidente dei deputati Pdl. E rivendica con forza la legittimità delle sue personali posizioni politiche: «Sono addolorato per quello che è accaduto, ma in pace con la mia coscienza, perché la dignità non si può svendere per piccole o grandi convenienze». Per questo, avverte, «pure a costo di continuare a irritare, non rinuncerò ad esprimere le mie opinioni».
Anche nel ruolo di terza carica dello Stato, nella cui veste si è prodotto in continui distinguo. D’altronde, «essendo presidente della Camera non per un concorso vinto, né per un gentile cadeau del premier, ma per la mia storia politica, rivendico il diritto di difendere i valori di una destra senza bava alla bocca. E finché sarò presidente, difenderò fino alla noia le prerogative del Parlamento». Criticando, se serve, il ricorso eccessivo ai decreti legge, che «qualche problema lo crea».
Ma a scanso di equivoci, ribadisce, «io non ho nessuna intenzione di litigare, men che meno di divorziare». A «condizione», però, che «Berlusconi rispetti le altrui opinioni e capisca che tutti sbagliano. Io sbaglio, ma sbaglia anche lui». Per esempio, il Cavaliere lo fa quando dice che Saviano promuove la camorra, perché «è come dire che Albert Camus, autore de “La peste”, era un untore». Ma sia chiaro pure un altro concetto: «Berlusconi non dia corso a epurazioni, non gli converrebbe». E se oggi «il gruppo del Pdl alla Camera dovesse accogliere le dimissioni di Bocchino, o lo sfiduciasse, be’, il buongiorno si vedrebbe dal mattino. E allora altro che partito liberale di massa, partito dell’amore e libertà di esprimere il dissenso. Se si iniziano a tagliare le teste, si apre una fase di caccia alle streghe...». Discorso un po’ differente per le cariche (da rinnovare) dei presidenti di commissioni: «Se hanno bene operato, vanno confermati, ma in ogni caso immagino che prima si debba discutere: non può essere accettato il principio o ti adegui o te ne vai».
Si vedrà. Per ora, niente tregua armata (come titola, interrogativo, il cartello alle sue spalle), perché per Fini non c’è nessuna guerra in corso ma, «dopo il confronto in direzione a un anno dalla nascita del Pdl, si è aperta una nuova fase politica». E «mi auguro che in futuro ci siano rapporti di massima correttezza istituzionale», con un «confronto alla luce del sole». Anche se «nel documento finale della direzione, il partito è evidentemente considerato una parentesi o un impaccio».
In ogni caso, niente correnti, come si è soliti inquadrare, che «ho definito metastasi». Ovvero, niente «gruppo che dice solo no». «Io, invece, voglio rendere qualitativamente migliore la politica del Pdl e del governo, perché - spiega - si discute poco e le decisioni vengono spesso prese senza calcolare gli effetti negativi».
Figuriamoci quindi un asse con Montezemolo: «Questo fa parte del teatrino della politica, come direbbe Berlusconi». O un accordo con Rutelli e Casini: «Sono entrambi all’opposizione». È tra l’altro «miope o in malafede» prospettare strumentalizzazioni sul patto costituente avanzato da Bersani, «per fare un’ammucchiata anti Berlusconi. Ben diverso il caso in cui ci si riferisca alle riforme da fare con ampie maggioranze», terreno su cui «mi fa piacere che il premier abbia mutato opinione». In definitiva, «le mie opinioni “dissenzienti” non sono finalizzate a far vincere la sinistra, come qualche imbecille dice». E «non ho detto a Berlusconi che ero pentito» di aver cofondato il Pdl.

Ma «ne auspicavo uno diverso da quello odierno».

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