La Chiesa lo «santifica» e in rete lo candidano al premio Nobel per la pace. La strada per trasformare Vittorio Arrigoni in un eroe dei due mondi è spianata. Non partecipiamo al processo di beatificazione, però siamo convinti che davanti alla morte bisogna sempre inchinarsi. Nonostante le sue discutibili idee ricordiamo Arrigoni come un italiano vittima del terrorismo. Anzi, di una «barbarie» per usare le giuste parole del presidente Giorgio Napolitano.
Con la stessa decisione ci chiediamo perchè Vik da Gaza, rispetto ad altre vittime del terrorismo o delle guerre, stia diventando una specie di icona, un morto di serie A. L'aureola di pacifista aiuta, ma abbracciare il premier di Hamas, Ismail Haniyeh, non significa proprio stringere un ramoscello d'ulivo.
Il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, ha «santificato» Arrigoni con un comunicato. Pochi mesi fa il vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, aveva commentato malamente il rientro in patria della salma del giovane alpino Matteo Miotto, ucciso in Afghanistan. «Andiamo piano però con l'esaltazione retorica, non facciamone degli eroi. Vanno lì con le armi, quelle non sono missioni di pace» dichiarava il presule evitando di presenziare ai funerali del caduto.
Non solo: qualche genio del politicamente corretto aveva sbianchettato da una fotografia di Miotto, sul suo blindato con un tricolore, il vecchio stemma sabaudo. Tutti i giornali italiani hanno pubblicato la foto di Arrigoni che sventola la bandiera palestinese, come se fosse una medaglia. E nessuno si chiede se fare lo scudo umano fra i palestinesi, organizzare flottiglie della «libertà» verso Gaza, aderire a gruppi astiosamente anti israeliani siano «armi» non meno insidiose di quelle vere.
Sembra quasi che l'alpino Miotto, che seguiva le orme del nonno con la penna nera, e i tanti caduti nelle guerre di «pace» degli italiani siano morti di serie B rispetto all'ultrà pacifista. Se poi sei dichiaratamente di sinistra, come Arrigoni, la beatificazione è garantita. Una storia già vista con Fabrizio Quattrocchi il contractor, che non ha mai avuto il tempo di sparare un colpo in Irak, ma è stato ammazzato come un cane dallo stesso genere di tagliagole che ha fatto fuori Arrigoni. Bollato come uno sporco mercenario, morto addirittura di serie Z, da non ricordare, anche se davanti agli assassini non piegò la testa e disse: «Vi faccio vedere come muore un italiano». Per fortuna se ne è accorto l'allora presidente Ciampi, che gli ha concesso la medaglia d'oro al valor civile.
Su Il Foglio e il Corriere della sera di ieri si levava qualche voce fuori dal coro dei peana per l'eroe pacifista, che è stato preso ad esempio al festival del giornalismo di Perugia. Arrigoni scriveva per il Manifesto e pure questo aiuta. Per oltre vent'anni Almerigo Grilz, il primo giornalista italiano morto in guerra dalla fine del secondo conflitto mondiale, nel 1987 in Mozambico, è stato un morto dimenticato. Un paria della categoria, perchè non aveva il pedigree politico giusto al momento giusto. Prima di scegliere i reportage di guerra, con uno spirito d'avventura molto simile a quello di Arrigoni, era uno dei capi nazionali del Fronte della Gioventù. A causa del suo passato da «fascio» è sempre stato una vittima di serie B.
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