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Se la vita normale fa a pezzi anche i campioni imbattibili

I genitori di Nadal si separano e il Superuomo del tennis va in crisi Per i tifosi sono leggende, ma la verità è che loro sono come noi

Se la vita normale fa a pezzi 
anche i campioni imbattibili

Il robot aveva una lacrima sul viso e da quel giorno non è stato più lo stesso. Il robot è quello che per noi mortali non può mai perdere e se si chiama Rafael Nadal lo è di più, perché nel tennis è il numero uno, imbattibile, o meglio lo era fino a quando le imperscrutabili leggi della vita hanno deciso diversamente. Perché prima o poi anche ai robot si fermano gli igranaggi, e diventano come tutti gli altri.
Capita nello sport, la proiezione della nostra superpotenza, il mondo in cui assegniamo a qualcuno quello che avremmo voluto essere, se naturalmente fossimo stati come loro, dei robot insomma. Loro giocano e vincono per noi, e se Isaac Asimov avesse potuto dare un volto definitivo ad uno dei suoi famosi androidi, sicuramente avrebbe avuto il volto un po’ indio di Rafa, avrebbe avuto quell’espressione feroce, quelle movenze da guerriero, quell’esultanza un po’ selvaggia, quella fama da robot. Indistruttibile.

Poi capita all’improvviso che non lo riconosci più: certo, sì, c’è pure un infortunio al ginocchio che gli fa perdere le chiavi di casa, ovvero il Roland Garros sulla terra rossa, e poi anche la possibilità di difendere il titolo a Wimbledon, il tempio del tennis nel quale giusto un anno fa aveva strappato lo scettro al Re, all’altro superuomo Roger Federer, nella partita forse più bella di sempre. Poi però capita che Rafa non sorride più come prima, non lotta, non si muove, non esulta. E scopri che la vita non fa sconti, anche nelle piccole incertezze quotidiane, anche per chi passa il tempo a rincorrere una pallina per raggiungere i sogni di tutti.

È il tam tam, insomma: lo dice per prima la stampa americana, la notizia attraversa l’oceano in un lampo - come accade nella nostra era - e Ubaldo Scanagatta, collega che dei robot del tennis si occupa da anni, decide che non è più tempo di tacere e sul suo sito scrive: «Lo sapevo da mesi. Ormai adesso lo sapranno tutti». In pratica: Rafael là a Manacor, sull’isola di Maiorca, ha il suo rifugio, il porto in cui un giramondo come lui - che ha cominciato a prendere la racchetta in mano a 4 anni - riassetta le sue certezze per tornare ad essere imbattibile. Al primo piano abitano i nonni, al secondo suo zio Toni che è pure il suo allenatore, al terzo mamma e papà, al quarto lui e la sorella. Un piccolo mondo, la sua scatola di spinaci. Ecco però che ora qualcosa è cambiato, al piano di sotto qualcosa si è rotto: i suoi genitori divorziano. E la notizia è questa: gli ingranaggi si fermano, non c’è più niente da riassettare. Fine del Superuomo.
Certo non per sempre, ma nella nostra professione di tifosi non è contemplato che gli Eroi scendano dal piedistallo. Linsday Davenport, una donnona grande e gentile che si issò anche lei al vertice del tennis, una volta rivelò che l’avversario più difficile non era stato in campo, ma appunto l’addio tra i suoi: «Piangevo tutti i giorni, il tennis era l’ultimo dei miei problemi, perdevo e non me ne importava nulla. Mi sembrava perfino stupido lottare per conquistare un punto, per rimontare una partita, quando in casa si respirava quel’atmosfera di tragedia». Eppure capita dietro le quinte del successo, come fu per Bjorn Borg, un altro che fece di Wimbledon cosa sua, che - travolto dalla fatica, da un matrimonio fallito, dai pensieri che non correvano più come i rivali - un giorno all’improvviso disse «no mas», mai più, a soli 26 anni, anche se poi tentò un triste ritorno quando il suo mito di Superuomo era ormai un pezzo di storia. Succede per un matrimonio andato a male, per una famiglia in piena crisi, per affari personali troppo difficili da tenere dentro. Paolo Bettini, campione del mondo di ciclismo, decise di appendere la bicicletta al chiodo quando pochi giorni dopo il trionfo suo fratello morì in un incidente: lo rimisero in sella a forza, e lui pedalò con le lacrime agli occhi con l’unico scopo di rivincere quel titolo da dedicare a Sauro, e così fu l’anno seguente. Così come fu per Fausto Coppi, che si dimise da Campionissimo per quasi due anni per aver perso il fratello Serse, e anche per Andre Agassi, da numero 1 a numero 141 delle racchette dopo aver divorziato da Brooke Shields e aver scoperto che la mamma e la sorella avevano fatto contemporanemente bingo alla crudele lotteria della vita: due tumori al prezzo di uno. Dolori grandi e piccoli da sopportare, ma troppo pesanti da reggere. Prendere Adriano, da dio del calcio con un futuro davanti ad alcolista reo confesso dopo la morte dell’amato padre, un colpo del destino più terribile di un gol subito al 90’. Oppure Valentino Rossi, niente di così tragico per carità, ma con il fisco alle spalle e la gente davanti che lo guardava un po’ così, l’anno terribile fu pieno di cadute, di errori da dilettante, di un mondiale buttato via da principiante, lui che per tutti della moto è un Dottore.

Ma così è la vita, si dice, e al robot Rafa ora non resta che rialzarsi per tornare più forte di prima. Capita anche questo infatti, succede a chi ha qualcosa in più, anche se tutto non può tornare come prima. E così noi che li abbiamo sempre amati perché sembravano imbattibili, scopriamo che i nostri Eroi hanno una nuova luce negli occhi e che in fondo hanno davvero qualcosa in più, forse la cosa più semplice: sono proprio come noi.

E forse per questo finiamo per amarli di più.

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