La seconda vita delle cheerleader da Barbie a Rambo

Non sono più le adolescenti un po' tonte delle soap tv, ma atlete addestrate come marine

Massimo M. Veronese

J udy Trammel ha gli stessi occhi di velluto di quando, trent'anni fa, era la più bella ragazza dei Cowboys, ma ha la pelle dura come quella di un marine. Alle sue girls, trentaquattro, è vietato, bere, fumare, fare le ore piccole, flirtare con i giocatori. Se perdi il pon pon lo devi ricomprare, se hai messo un po' di ciccia sui fianchi sono tre giri di campo in più, se sbagli la sincronia con le altre sono venti flessioni. Judy, è il sergente Hartmann delle cheerleaders dei Dallas Cowboys, le più famose, le più belle, le più amate d'America: si assicura che vadano a letto presto, e sempre da sole, che mangino le cose giuste e che scordino ogni distrazione. Le cose sono cambiate rispetto a quando le Cowboy Girls si facevano immortalare in calendari piccanti e facevano stuzzicanti pubblicità a uno shampoo. Sette anni fa il Texas ha fatto una legge per soffocare la vocazione voyeuristica delle nuove leve per coreografie troppo hard. Cominciavano ad esagerare nell'abbassare la vita di gonne e pantaloncini anche se nessuno se ne lamentava. Non si fa così. Perchè con i loro sorrisi smaltati, i colori sgargianti, la coda di cavallo e l'ombelico del mondo queste ombrelline che ballano non sono più le adolescenti un po' tonte delle soap, le allegre sciacquette che fanno diventare ciechi i teen ager, le Olivia Newton-John di Grease che smettono la camicia bianca col megafono rosso e diventano bad girl per conquistare Danny Zucco. Sono l'America dell'eterna giovinezza, delle possibilità senza fine, delle illusioni mai perdute, quella che fa dell'esuberanza fisica e della competizione il principio della bellezza, una bellezza piena di energia e vitamine, ansiosa di futuro e ottimista.

Un po' Bluebell, un po' Baywatch le cheerleaders sono patrimonio nazionale come le anatre a Central park, il Gran Canyon e la Coca Cola, «la torta di mele servita accanto alle bistecche» secondo la sintesi culinaria del Washington Post, «il fallimento della liberazione femminile, il simbolo puritano della dicotomia mai risolta tra sante e puttane» per l'icona ultraliberal Naomi Wolff. Sono nate nel giorno dei morti, il due di novembre, ma da centovent'anni sono un inno alla vita. In America sono tre milioni, la popolazione di Roma o di Madrid, e ogni estate più di mezzo milione di ragazzine affollano i cancelli dei millecinquecento camp sparsi nella nazione per entrare nel casting. Si esibiscono nelle high school, nei college, nelle leghe minori. Hanno due federazioni, la Uca e la Nca, otto riviste specializzate, la più famosa, American Cheerleaders, con più di un milione di lettori, in duecento università prendono borse di studio come le promesse del football e del basket, anche perchè si allenano più duramente di loro, per una paga da fame, senza vincere niente nella speranza che qualche regista le scopra nel senso artistico del termine: a Meryl Streep, Halle Berry e Sandra Bullock è capitato. «Sono diventata una cheerleader perché ho avuto una mamma molto severa. Era il mio modo di essere una cattiva ragazza»: parola della Bullock.

Pensare che in principio era un uomo, lo sfigato del gruppo, quello scarso che in Italia, quando giochi a pallone, mandi in porta. Però simpatico, trascinante, carismatico, più Fiorello che rivincita dei nerds. Il primo si chiamava Johnny Campbell, studente al primo anno di medicina e aveva più capelli che fisico. Per organizzare il tifo si inventò un grido, vagamente futurista, tra l'aramaico e lo slang, che non voleva dire nulla e sembrava un gargarismo: «Rah, rah, rah, Sku-u-mar, Hoo-Rah! Hoo-Rah! Varsity! Varsity! Varsity! Minn-e-So-Tah»: trascinò pubblico e squadra così bene che all'università del Minnesota lo cantano ancora adesso. Era il 2 novembre 1898, e per anni il cheerleading è stato un affare per soli uomini: Frankyn Delano Roosevelt ha fatto il ragazzo pon pon ad Harward, Dwight Eisenhower a West Point, Ronald Reagan all'Eureka college, George W. Bush alla Philips Accademy. Una scuola di presidenti. Le ragazze sono arrivate nel 1923 accolte a male parole e a sguardi truci perchè più che incitare distraevano. Hanno rimontato alla svelta: nel 1960 sono entrate nel magico mondo della Nfl, nel 1972 sono diventate professionista. Oggi i tornei delle cheerleaders fanno più ascolti di molti incontri di cartello, Hayden Panettiere, star nel telefilm Heroes ha fatto della cheerleader persino un'eroina tv che esce da ogni pericolo gridando «Save the cheerleader, save the world», salva una cheerleader, salvi il mondo.

Non sempre è andata bene. Per anni sono stati una compilation dei tratti femminili più negativi, un insieme preconfezionato delle peggiori idee dell'uomo sulle adolescenti, il diavolo in persona per le suffragette sessantottine, e anche nel mondo zuccherato delle pon pon girls oltre al rock'n roll sono entrati il sesso, la droga, il bullismo. Molte hanno fatto causa a squadre che incassano 14 miliardi all'anno per la paga da fame e gli orari da schiavi.

Ma hanno smesso di essere quasi un insulto all'immagine della donna per diventare quello che sono oggi atlete forti, ballerine toste, donne vere con una preparazione atletica che non ha niente da invidiare ai campioni olimpici e alle stelle del football. Per questo Judy Trammel non molla un centimetro. Il corpo cresce forte quando il cuore ha una missione.

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