Il massacro dei dissidenti iniziò davanti a una villetta di Liscate, la prima mattina di giugno del 1987. L’uomo che si faceva chiamare Michele Tartaglia - ma che negli uffici patinati delle immobiliari del centro di Milano veniva chiamato semplicemente «L’Ingegnere» - vide le facce dei due che gli venivano incontro e capì subito cosa erano venuti a fare. Risalì in auto, una Talbot Samba, e qui venne crivellato di colpi. Il suo vero nome era Gaetano Carollo, vicecapo del mandamento mafioso di Resuttana. I corleonesi di Totò Riina avevano iniziato le loro operazioni di sterminio al nord.
Sono passati ventidue anni. Ora la Procura della Repubblica ritiene di avere fatto luce su quella stagione di sangue, e chiede il rinvio a giudizio dei suoi autori: e fa un certo effetto che la notizia arrivi ora, in questi giorni in cui l’arresto in via Marghera di Gaetano Fidanzati, il «boss dal sorriso d’acciaio», ricorda a tutti che Cosa Nostra a Milano è esistita ed esiste. E che i suoi nomi sono sempre quelli, malgrado gli anni che passano e il sangue scorso. Perché i Carollo, i Ciulla, i Fidanzati, erano gli uomini che avevano portato la mafia a Milano, arrivando qui con le valigie di cartone, arrabattandosi per anni in qualche modo, e diventando passo per passo l’avamposto della armata criminale più feroce ed organizzata che Milano abbia mai visto. Dirà Giovanni Brusca che negli anni Ottanta quasi tutta l’anidride acetica che Cosa Nostra utilizzava in Sicilia per raffinare l’eroina veniva da Milano, da Gaetano Carollo.
L’arresto di Fidanzati viene a ricordarci che Cosa Nostra è ancora qui, sotto la Madonnina. Così non è archeologia giudiziaria che oggi, dopo tanti anni, si chiuda il cerchio intorno a quei delitti. Il prossimo 15 dicembre, nell’aula bunker di Milano, si terrà l’udienza preliminare contro i ventidue uomini che il pm Marcello Musso, della Direzione distrettuale antimafia, considera i mandanti e gli esecutori dello sterminio dei dissidenti. In cima all’elenco, Totò Riina, oggi detenuto a Opera, suo cognato Leoluca Bagarella, e «Piddu» Madonia, il potente capo della famiglia di Caltanissetta. L’inchiesta ricostruisce sei omicidi: dal primo, quello di Carollo, all’ultimo, quello di Alfio Trovato, massacrato a colpi di calibro 9 in fondo a via Palmanova, il pomeriggio del 2 maggio 1992. Una lunga striscia di sangue unita da un denominatore comune: la legge di ferro di Cosa Nostra sotto il governo di Riina e Bernardo Provenzano, la guerra senza quartiere a chiunque non garantisse obbedienza e fedeltà ai viddani di Corleone. In una manciata di giorni, pochi anni prima, Riina e i suoi avevano conquistato Palermo massacrando gli uomini della vecchia mafia. Con l’uccisione di Gaetano Carollo, il repulisti venne portato a Milano. «Dobbiamo riportare Milano sotto Cosa Nostra, come ai tempi di Luciano Liggio», diceva ai suoi Totò Riina.
Furono giorni terribili. Lo stesso giorno in cui a Liscate veniva ucciso Carollo, a Torino cadeva Salvatore Rinella, suo alleato. Un mese dopo, a Palermo, toccò a un altro del gruppo, Francesco Perna. Il 16 dicembre, appena uscito dall’Ucciardone, ammazzarono Antonino Ciulla, cognato di Carollo, che in cella aveva fatto a voce troppo alta propositi di vendicarlo. E prima che finisse l’anno svanì nel nulla Pietro Carollo, figlio di Gaetano, che faceva troppe domande in giro sulla morte del padre. Di tutta la famiglia Carollo sopravvisse solo Toni, il figlio minore, quello che nei piani del padre doveva costituire il volto pulito della famiglia. E che si ritrovò, forse suo malgrado, a guidare quel che restava del clan: fin quando, tre anni dopo, non lo arrestarono Ilda Boccassini e il capitano Ultimo, nel blitz della Duomo Connection.
«Bisognava fare un piacere a Riina e Provenzano»: così i nuovi pentiti che sono alla base di questa inchiesta hanno raccontato la genesi della strage. Perché Gaetano Carollo «scalpitava troppo», non stava al suo posto, voleva fare carriera. E soprattutto perché «aveva nascosto dei soldi». Aveva fatto affari in proprio. Massacrando Carollo e i suoi, i corleonesi fecero sapere al mondo sotterraneo del crimine che il business gigantesco dell’eroina a Milano era cosa loro.
Per uccidere il boss dissidente, dicono i pentiti, Riina si appoggiò all’armata di killer più efficiente in circolazione, quella agli ordini di Piddu Madonia, il padrino di Caltanissetta. Ma un vicecapo come Carollo non poteva essere ammazzato da un picciotto qualsiasi. Per toglierlo di mezzo salirono dalla Sicilia Terminio Cataldo, capo della famiglia di San Cataldo, e Antonio Rinzivillo. Furono loro («uno più alto, uno più basso» diranno i testimoni) i due che Carollo si trovò davanti quella mattina di giugno, e quando li riconobbe era troppo tardi.
Da allora in avanti, a Milano per i dissidenti non ci fu più scampo. Sotto il piombo dei killer venuti dalla Sicilia cadde Carmelo Tosto, di Gela, accusato di essere «poco allineato». Cadde Vincenzo De Benedetto, che qualche anno prima aveva fatto fuori Nello Pernice, uomo di bische e di misteri, fedelissimo di Luciano Liggio. E caddero gli uomini delle piccole mafie dissidenti, stiddari di Gela come Verderame e Scerra, cursoti di Catania come Alfio Trovato.
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