Seiffert: «I confini che l’Europa non ha cancellato»

L’eredità del comunismo. Le colpe del nazismo. Le migrazioni interne. L’appartenenza ad una nazione. La precarietà nel lavoro e il ruolo femminile. Negli undici racconti della raccolta Brevi distanze di Rachel Seiffert (Frassinelli) trovano spazio tutti i temi che compongono l’identità europea e che le generazioni dell’ultimo secolo hanno vissuto sulla propria pelle. L’autrice ha poco più di trent’anni ma non si tira certo indietro di fronte alle grandi prove. Il suo primo libro, La camera oscura, tentava di esorcizzare il male assoluto imposto alla storia tedesca in quanto colpevole dell’Olocausto, perché, dice la Seiffert, «I nazisti, nonostante il sadismo, le azioni e la politica incomprensibile, la meccanizzazione del rapporto morte/omicidio, erano esseri umani».
Cresciuta in Inghilterra da madre tedesca e padre australiano, la Seiffert porta con sé la spaccatura dell’identità sin da bambina: «Nazista!», l’apostrofavano i compagni a Oxford, dove il padre era professore universitario. Nel 2001, quando venne pubblicato, La camera oscura conquistò, oltre alle polemiche, le nomination per il Man/Booker e per il Guardian First Book. E la sua autrice venne inserita di diritto nella prestigiosa lista dei migliori narratori britannici stilata dalla rivista Granta.
Ora, con Brevi distanze, la Seiffert rimette la penna in una piaga, di nuovo molto legata alla storia tedesca, sebbene più recente, quella del concetto di confine: «I miei racconti - spiega - contengono confini, ovvero limiti. Geografici, fisici, emotivi. Dapprima cerco di spiegare come si sono formati. Poi che cosa accade quando cerchiamo di attraversarli, per amore o per forza. L’Europa ora unisce diverse nazioni e tradizioni. Tuttavia molte di queste hanno una storia di divisione. Uno dei racconti, Ripiego, è ambientato in Slesia, una regione passata di mano tra Germania e Polonia, una terra che gli abitanti di entrambe le nazioni hanno chiamato casa. Piotr, uno dei personaggi, vive lì. E quando Ewa, che viene dalla Polonia, deve decidere di attraversare per sempre il confine che li separa e scegliere la Germania, è davvero lacerata. Eppure, si tratta sempre di Europa».
Brevi distanze è un libro pieno di bambini e giovani. Che importanza hanno storia, memoria e letteratura per loro? «Nessuna. Almeno non consciamente. Amano raccontarsi storie, invece. I bambini, i ragazzi, amano le storie, sanno integrarle nel quotidiano, adorano raccontare e ascoltare incontri, esperienze, usare parole nuove. Personalmente, a scuola amavo studiare storia per sapere cosa pensava la gente, come viveva. Ai giovani, oggi, non interessa. Comunque prima o poi i giovani crescono. E diventano consapevoli della propria finitezza. E anche il problema dell’identità allora assume importanza, perché capiscono quanto limiti le loro vite».
Dunque esiste un’identità europea che ci dia un senso di appartenenza? «Potrei dirle che oggi mi sento più a casa in una città italiana o tedesca rispetto a quanto mi ci senta in una città del Nord America. I paesaggi urbani tuttavia sono ingannevoli e si evolvono lungo secoli. Gli imperi, il commercio, l’emigrazione, i viaggi ci hanno interconnessi. Se cerchiamo queste connessioni, riusciamo anche a distinguere meglio le identità».
Su quale nervo scoperto della nostra storia recente ha intenzione di concentrarsi nel suo prossimo libro? «Ho appena terminato un romanzo. Si chiamerà Afterwards (Dopo) e uscirà nel 2007. È ambientato ai giorni nostri, in Inghilterra. È la storia di Joseph, che ha combattuto per la British Army nell’Irlanda del Nord, della sua fidanzata Alice e del nonno di lei, David, impegnato con la Royal Air Force in Kenya negli anni Cinquanta durante l’insurrezione dei Mau Mau. Si tratta di un romanzo sulle conseguenze che un trauma può avere su una relazione affettiva.

Come tenere in equilibrio il bisogno di ricordare e il desiderio di dimenticare. Come amare qualcuno che decida di non rivelarci un segreto, come a volte sia meglio non conoscere i dettagli del suo passato. Meglio non chiedere nemmeno».

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