Un Senato per dare voce alle Regioni

A che serve un Senato «federale» come quello previsto dal progetto di riforma sul quale voteremo il 25 e il 26 giugno? A due cose: a dare rappresentanza alle Regioni nelle strutture parlamentari centrali e a «specializzare» uno dei due rami del Parlamento in un tipo specifico di attività legislativa, quella che più direttamente riguarda le competenze regionali. Due sono, analogamente, gli obbiettivi. Il primo: fare in modo che la legislazione statale venga prodotta in accordo con la rappresentanza delle Regioni, onde comporre in via preventiva le tensioni tra istanze centralizzatrici e centrifughe, evitando per quanto possibile i successivi ricorsi di fronte alla Corte costituzionale. Il secondo: spezzare il meccanismo del bicameralismo paritario, peculiarità sulla quale si regge il nostro sistema parlamentare, con due camere pressoché identiche e con gli stessi compiti, costrette a deliberare insieme su tutto, compresa la fiducia al Governo.
Il nuovo Senato previsto dal progetto è pur sempre, come l’attuale, eletto direttamente dal corpo elettorale (i senatori scendono da 315 a 252). Ma attenzione: il corpo elettorale di ogni Regione elegge un certo numero di senatori (in proporzione alla popolazione) contestualmente all’elezione del rispettivo Consiglio regionale. Se il Consiglio regionale viene sciolto anticipatamente, decadono anche i senatori eletti in quella Regione. Perciò il nuovo Senato non sarebbe più un’assemblea dalla durata precostituita, da rinnovare integralmente ad ogni scadenza: ma la durata in carica dei senatori sarebbe legata a quella dei rispettivi consigli regionali. Questo è, nel progetto, il legame vero tra senatori e rispettiva realtà regionale.
Molti esperti col ditino alzato criticano l’esistenza reale di questo legame e perciò negano la natura federale del nuovo Senato. Non hanno del tutto torto, intendiamoci. Sarebbe stato bello costruire un Senato federale come quello tedesco, i cui componenti non sono eletti, ma vengono nominati dai governi dei diversi Laender. Anche senza arrivare a tanto, sarebbe stato importantissimo includere nel nuovo Senato, come membri di diritto, i Governatori regionali. Essi avrebbero portato in Senato la propria autorevolezza e i frutti della propria esperienza di governo regionale. Al loro posto, accanto ai senatori elettivi, il progetto prevede solo la presenza, senza diritto di voto, di una quarantina di rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali.
Si poteva far di meglio, insomma. Ma quel che gli esperti col ditino alzato dimenticano è che, in democrazia, le riforme hanno un piccolo difetto: dopo essere state pensate, devono essere votate dal Parlamento, e cioè dai parlamentari che in quel Parlamento siedono. Un difettuccio che si fa sentire soprattutto nel caso di riforme costituzionali che riguardino poteri e composizione del Parlamento. In questi casi, si richiede ai parlamentari un notevolissimo sforzo di imparzialità e disinteresse. Perché essi sono chiamati a votare sui propri poteri, sul proprio futuro in quanto membri della classe politica. È il paradosso del riformatore che deve riformare se stesso.
Non è stato facile indurre i senatori ad accettare i ridimensionamenti che il progetto implica: niente più rapporto fiduciario col Governo, specializzazione funzionale su alcune specifiche materie legislative (alcune peraltro di tutta importanza).

Ci si è riusciti anche posticipando nel tempo l’entrata in vigore dei cambiamenti in questione, perché il nuovo Senato federale entrerebbe a regime, prevedibilmente, fra dieci anni. Non è stato facile. Se al referendum vince il No, scommettiamo che sarebbe ancora più difficile provarci una seconda volta?

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