Senato, governo ko sull’Afghanistan Il Polo: D’Alema lasci

L’Unione boccia la mozione di Calderoli che approva la missione. Il ministro minimizza L’opposizione: è un caso politico

Senato, governo ko sull’Afghanistan Il Polo: D’Alema lasci

da Roma

Dopo una crisi sfiorata e una consumata sulla politica estera, stavolta l’Unione si è premunita. Per l’appuntamento con le comunicazioni del ministro Massimo D’Alema ha precettato tutti i senatori, compresi quelli a vita che la supportano, e - per una volta - è riuscita anche a presentare una risoluzione unitaria. «È inattaccabile: non dice assolutamente niente, quindi è impossibile dissociarsi», spiega (autoironico) il presidente dei senatori di Rifondazione, Giovanni Russo Spena.
E infatti a sera la risoluzione passa senza problemi, con tre assenze della Cdl (Selva di An, Pirovano della Lega e Pistorio Dca-Mpa), mentre vengono respinte quelle presentate dall’opposizione. Solo che nel caos finale, a tarda sera, capita l’autogol. Viene bocciato un ordine del giorno dell’opposizione (trappola partorita dalla fertile mente del solito Roberto Calderoli) che approvava la politica estera del governo in Afghanistan. Bagarre in aula, Rifondazione prova a contestare il voto appellandosi a Marini e sostenendo che c’è stato «un errore», l’Ulivo dice che quel voto «non vale nulla» perché la risoluzione di maggioranza è comunque passata approvando la linea di D’Alema, la Cdl replica che «la bocciatura sull’Afghanistan non è irrilevante» e che il governo farebbe bene a riflettere. «Con questo fatto si apre un caso politico non indifferente. D’Alema ne prenda atto», tuona Schifani. Anche Calderoli chiede dimissioni. Il ministro non raccoglie, Marini cerca di tagliar corto e mandare a casa prima possibile i frastornati senatori, prima che succedano altri guai.
Stavolta D’Alema ce l’ha messa tutta per evitare il bis di febbraio. Quando il giorno prima del voto al Senato sulla politica estera disse: «Se non c’è maggioranza andiamo tutti a casa», e poi la maggioranza non ci fu per davvero. Stavolta il ministro degli Esteri è stato rassicurante («Non è un dibattito che debba essere temuto»), accattivante («Sarà uno scambio vitale per individuare gli interessi del Paese e cercare un consenso largo»), pacato. Tanto pacato che ha finito per parlare più del previsto, passando dall’Europa e il suo Trattato al Kosovo, dal Darfour alla battaglia contro la pena di morte, dai tanti milioni investiti in cooperazione alla conferenza internazionale sull’Afghanistan, dove «non resteremo per un tempo indefinito ma per quel tanto necessario ad aiutare quel paese a camminare sulle sue gambe», e «non sarà un tempo breve». Alla fine il presidente Marini ha dovuto richiamarlo, ricordandogli che il tempo stava scadendo. E D’Alema ha esaurito in fretta l’ultimo scabroso capitolo, quello sul Medio Oriente. Rintuzzando le polemiche «generose» che lo hanno investito in questi giorni, per le sue aperture ad Hamas e per quella lettera di 10 ministri degli Esteri europei a Blair che venne sconfessata da Prodi. «Non ho mai proposto che la comunità internazionale apra negoziati diretti con Hamas, ho sollecitato la necessità di una ripresa del dialogo interno ai palestinesi», e ad evitare di «spingere Hamas a radicalizzarsi e a finire tra le braccia di Al Qaida». E questo «anche nell’interesse» di Israele. Perché «la principale garanzia di sicurezza di Israele è fare la pace con gli arabi e si è amici di Israele se li si incoraggia».
Nella replica, quando l’atmosfera si surriscalda e l’opposizione lo mette sotto attacco, si spazientisce: «Trovo singolare che il dibattito sulla politica estera debba trasformarsi in una palestra per le polemiche legate al quadro nazionale. Ridicolo strumentalizzare l’errore di un voto». Poi l’affondo sul Medio Oriente: «Non voglio entrare nel dibattito sulla natura di Hamas o di Hezbollah, che non è un movimento terrorista, ma sono colpito per il fatto che l’iniziativa dell’Europa mediterranea, che ha avuto nel Parlamento europeo un così largo sostegno anche da An e dai capi del Ppe, debba diventare qui per ragioni di politica interna un discrimine tra maggioranza e opposizione».


Quanto alla missione in Libano, D’Alema ne celebra «l’impegno utile e giusto», ma i risultati non sembrano esaltanti: ammette che «preoccupa il contrabbando di armi che prosegue nonostante il divieto», e che «il livello di controllo al confine con la Siria è inadeguato».

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