Roma - Mancano una manciata di minuti alle 15. Franco Marini legge sul display i risultati del voto della mozione della maggioranza sulla politica estera. Voti a favore 158, quorum richiesto 160. «Il Senato non approva», dice con voce fioca il presidente di Palazzo Madama. L’aula esplode. Massimo D’Alema sfila via rapido. Secondo alcune indiscrezioni, incrocia Anna Finocchiaro e sibila: «Vado a dimettermi». Voci poi smentite a distanza di qualche ora da Russo Spena. Il ministro degli Esteri non va al Quirinale (che troverebbe vuoto: Napolitano è ancora a Bologna). Ma vola a Palazzo Chigi.
Il voto contrario arriva inaspettato, per maggioranza e opposizione. Ma che il voto fosse a rischio, era nell’aria. Nella sua dichiarazione di voto, la Finocchiaro per due volte ricorda: lo sappiamo che qui al Senato la nostra maggioranza è risicata. Quasi una premonizione. Altrettanta scaramanzia mostrano i senatori dell’Unione per commentare i continui capannelli che animano i banchi dell’opposizione. «Forse stanno facendo i conti», dicono. Anche nella maggioranza si stanno facendo i conti: poco prima del voto sarebbero in vantaggio. A determinare l’ottimismo la scelta di Roberto Calderoli di modificare - dopo un vorticoso giro di telefonate con Berlusconi e Fini - la propria risoluzione. La prima versione chiedeva un voto a favore sulle comunicazioni del governo. La seconda, chiedeva un voto contro. In realtà, chi sbaglia i conti è l’Unione.
Non considera l’atteggiamento che di lì a poco assumeranno due senatori di Rifondazione, Rossi e Turigliatto. E ignora il comportamento di Andreotti e di Sergio Pininfarina. A scompaginare le deboli convinzioni di Fernando Rossi e Franco Turigliatto (due senatori di Rifondazione contrari alla politica estera del governo), ci pensa lo stesso Massimo D’Alema. Per tutta la giornata gira voce che i due non si presentino in aula. Ma il ministro degli Esteri, nella sua replica, quasi sfida la maggioranza. «Chi è contrario voti contro - dice D’Alema a Palazzo Madama, fissando i banchi della sinistra -. È il momento delle assunzioni delle responsabilità e per noi è fondamentale misurare il consenso di quest’aula». E aggiunge: «Si tratta di una condizione preziosa per andare avanti nel nostro lavoro. Dobbiamo essere chiari nei confronti del Paese».
È quasi sprezzante il ministro degli Esteri. Di buon mattino, quando entra a Palazzo Madama annuncia: se mi chiederanno di Vicenza, risponderò. E sono parecchi i senatori che gli chiedono conto delle scelte del governo di autorizzare l’ampliamento della base di Vicenza. Puntuale, arriva la risposta: «Ritengo che se il governo revocasse la decisione su Vicenza sarebbe un atto ostile nei confronti degli Stati Uniti». E a chi gli chiede il ritiro dall’Afghanistan, replica: «Il ritiro dall’Afghanistan sarebbe un atto unilaterale che ci separerebbe dall’Europa, come gli spagnoli, e non ci metterebbe in comunicazione con nessuno». Benzina sulle ferite della maggioranza.
Il primo a raccogliere l’invito alla «chiarezza» avanzato dal ministro è Franco Turigliatto, senatore ultrà di Rifondazione. Prima del voto, annuncia: «Non voto e mi dimetto da senatore». Meno uno. Fernando Rossi lo segue dopo pochi muniti. In aula annuncia che non parteciperà al voto. E davanti a tutti, sfila la sua scheda magnetica. In più, annuncia: voto contro la fiducia al governo sulla politica estera. Esplode l’ira della maggioranza. La Finocchiaro gli urla: «Vota! Vota!». Gli tirano un volume della rassegna stampa. E lui, niente. Manuela Palermi, capogruppo di Pdci-Verdi, è la più agguerrita. «Sono due irresponsabili. Nei loro confronti nutro il più profondo disprezzo». E pensare che per tutto il giorno, i due sono oggetto di attenzione da parte della maggioranza. Rossi, pressato, poi fa dietrofront: «Voterò la fiducia al governo Prodi, non vorrei essere la causa della sua caduta». E sul «no» alla politica estera: «Anche se votavamo a favore il governo andava sotto ugualmente», si giustifica Rossi. Già perché, alla fine, la differenza la fanno i senatori a vita. Tre su sette (Andreotti, Cossiga e Pininfarina) si astengono, e per il regolamento di Palazzo Madama l’astensione equivale a un voto contrario. Scalfaro è assente per malattia.
Cossiga lo aveva annunciato ai quattro venti. Andreotti aveva fatto sapere che avrebbe votato a favore a tutte le mozioni di sostegno alla politica estera del governo. Pininfarina è la sorpresa. Da giorni, maggioranza e opposizione lo corteggiano. Fassino, addirittura, lo accompagna fino alla porta dell’aula di Palazzo Madama, in virtù della comune torinesità. Nella strategia dei ds, doveva sedersi nell’aula al posto di Villone. Il senatore a vita chiede a Valerio Zanone (altro piemontese) di stargli vicino al momento del voto. E Zanone gli si affianca.
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