Sentenza-beffa

I pm siciliani contro l’inasprimento delle pene per il reato di associazione mafiosa. Follia collettiva nelle procure di Palermo e dintorni? Mondo capovolto? No, solo il timore, in parte fondato per una recente sentenza della Cassazione, che a causa delle variazioni all’articolo 416 bis (l’articolo del codice penale che definisce il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso) introdotte dal governo nel luglio scorso attraverso il “pacchetto sicurezza”, variazioni che sostanzialmente rendono più severe le sanzioni per chi è accusato di mafia, siano da rifare centinaia di processi in corso che coinvolgono i boss più importanti. Il motivo? Con l’inasprimento delle pene, combinando le aggravanti, si superano, in diversi casi, i 24 anni di condanna; e per condanne superiori ai 24 anni la competenza a giudicare è della Corte d’Assise. Insomma, un terremoto.
Un allarme pesante. Tanto più che le condanne superiori ai 24 anni riguardano in genere proprio i boss più pericolosi. Qualche esempio. Proprio la settimana scorsa i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo hanno avuto 30 anni in una tranche del processo Addiopizzo. E i protagonisti di un processo rinviato a Palermo sono personaggi di rango del calibro dei fratelli Nino, Aldo, Salvo e Giuseppe Madonia. Secondo alcuni, a cascata, il rischio potrebbe estendersi anche alle scarcerazioni. Il ministro di Giustizia Alfano getta acqua sul fuoco. «Tutti possono stare tranquilli – ha assicurato ieri – il governo farà in modo che non ci siano conseguenze negative da un fatto positivo come l’inasprimento delle pene per i reati di 416 bis. Non conosco nella sua motivazione, ma solo nel dispositivo la sentenza di Cassazione, ma faremo di tutto per evitare che ci possano essere delle conseguenze negative e un grande paradosso, e cioè che dall’inasprimento delle pene possa derivare un beneficio per i boss. Eviterei aggettivi estremi ed eccessi di ansia, perché il governo dell’antimafia, delle leggi e dei fatti provvederà a evitare che effetti distorsivi possano verificarsi, soprattutto per i processi in corso».
Tutto, come si diceva, è nato da una sentenza della Suprema corte emessa in sordina qualche settimana fa, lo scorso 21 gennaio, e relativa a un processo per mafia celebrato a Catania. Chiamata a dirimere una questione di competenza, la Cassazione ha stabilito che spetta alla Corte d’Assise giudicare, non al Tribunale. Ancora non si conoscono le motivazioni, ma in virtù del semplice dispositivo, a Palermo, qualche sezione del Tribunale ha sollevato il problema. Il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia ha profetizzato: «È una catastrofe dai potenziali effetti devastanti. E per rimediare occorrerà un immediato intervento del legislatore». A smentire in parte la portata dell’allarme lanciato dal suo vice il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, secondo il quale la sentenza della Cassazione «non dovrebbe determinare scarcerazioni. Sotto questo profilo non c’è un allarme immediato, ma certo ci sono problemi giuridici che dovranno essere esaminati».
Dal centrosinistra un coro a che il governo intervenga immediatamente. Il segretario del Pd Pierluigi Bersani ha sollecitato un «provvedimento d’urgenza per ristabilire certezza normativa». Qualche correttivo, si apprende da indiscrezioni, sarebbe auspicato anche dalla Cassazione. E in serata, da fonti del ministero, si è appreso che il problema riguarderebbe non il «pacchetto sicurezza» ma un articolo della ex Cirielli che ha aumentato a 24 anni la pena massima per l’associazione mafiosa. I tecnici di via Arenula sono comunque preoccupati e temono «effetti devastanti».

L’estensione delle competenze delle Corti d’Assise renderà necessario un maggiore stanziamento di fondi. Quanto ai processi, il rischio per quelli già avviati dovrebbe essere limitato, mentre il problema si pone per i dibattimenti futuri.

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