Senza Avvocato dinastia in crisi

Alla morte del patriarca tutti temevano la caduta dell’impero dell’auto. Invece l’azienda tiene: il vero problema ora è gestire il danno d’immagine provocato dallo scontro per l’eredità. L’ultimo atto: Margherita a rapporto dagli esattori

Senza Avvocato dinastia in crisi

La notizia, a ben vedere, non è tanto che cosa abbiano chiesto mercoledì scorso a Margherita Agnelli i funzionari dell’Agenzia delle Entrate di Torino che l’avevano convocata. Perché al di là della prevedibilità delle domande sull’eredità contesa e sul presunto tesoro di famiglia, la vera notizia è piuttosto che una Agnelli abbia varcato quel portone, sia entrata in una di quelle grigie stanze e si sia seduta su una poltroncina in similpelle per sottoporsi a una seccante e banale umiliazione da comune mortale. Convocazioni così, di uno della Dinastia, con l’Avvocato ancora in vita sarebbero stati oltraggi nemmeno da immaginare. Figuriamoci da attuare. E non parliamo poi di scriverne sui giornali.

Perché pur se Torino, parafrasando Pascal, ha sempre avuto e continuerà ad avere ragioni che la ragione non conosce, nel senso che era, è e sarà a lungo città «altra», diversa, la storia recente ci dice che tanto, se non tutto, è cambiato dopo quel 24 gennaio 2003 in cui morì Gianni Agnelli. Giorno che per l’Italia, ma soprattutto per l’antica capitale, è diventato data di demarcazione, anno zero, sorta di laico «prima e dopo A.», nel senso di prima e dopo Lui, l’Avvocato. Con un «dopo» in cui nulla sarebbe stato più come «prima». Vedendo cose che non avremmo mai pensato di vedere. Questo perché la storia e le vicende degli Agnelli e di Torino si sono intrecciate negli ultimi 110 anni in un indissolubile paso doble. Dove «guidavano» gli uni - nel bene e nel male - seguiva l’altra.
È altrettanto vero che di questa inscindibilità, segni ce ne sono ancora. Lo ha dimostrato nei giorni scorsi l’ultimo atto di questa piece. Con la magistratura torinese che ha respinto quelle 48 domande che i legali di Margherita - ora menzionata più come signora de Pahlen (cognome del secondo marito) che come secondogenita e unica vivente dei figli di Agnelli - avrebbero voluto rivolgere ai tre manager di fiducia dello scomparso e da lei citati in giudizio: Gianluigi Gabetti, Franzo Grande Stevens e Siegfried Maron. Gran rifiuto dei giudici che in città ha lasciato stupiti ben pochi dal momento che, per quanta acqua possa passare sotto i ponti del Po, il marchio d’Azienda non si tocca. Rimanendo più forte perfino del nome della stessa Dinastia.

Resta comunque un fatto che lo sgretolamento di questa Buddenbrook nostrana, dove Villar Perosa prende il posto di Lubecca e i tajarin al tartufo sostituiscono pane e aringhe, inizi già poche settimane dopo la scomparsa dell’Avvocato. Nella primavera del 2003, infatti, Grande Stevens, come esecutore testamentario, convoca davanti a un notaio e a Gabetti, fedelissimo braccio destro di Agnelli, la moglie dello scomparso, Marella, e la figlia Margherita. Alle due donne va in parti uguali il 75% della holding privata denominata Dicembre, strumento di controllo attraverso il quale la famiglia detiene il potere del gruppo Fiat.
Il restante 25% era già stato trasferito, come investitura a futura memoria, da nonno Gianni al nipote John, l’allora ventunenne figlio primogenito di Margherita e del primo marito Alain Elkann (dal quale Margherita ha avuto altri due figli, Lapo e Ginevra, a cui si sono poi aggiunti i cinque nati dalle seconde nozze con il nobile russo-francese Serge de Pahlen). Una decisione - è il ’97 - resasi necessaria alla morte improvvisa dell’altro nipote, Giovannino, figlio di Umberto Agnelli, portato via da un cancro. Prima che quel crudele destino ci si mettesse di mezzo, avrebbe dovuto essere lui a prendere le redini del gruppo.

Ma in questa Buddenbrook nostrana dove perfino il tifo per l’amata Juventus, per non dire dell’attenzione alle quote di controllo, ha sempre avuto il sopravvento su altri più umani sentimenti - «L’amore è cosa da cameriere», era uno dei cinici motti dell’Avvocato - quell’incontro davanti al notaio segna l’inizio della guerra domestica.
Nonna Marella trasferisce infatti nella stessa occasione a John, dando corpo alla volontà del marito, la propria quota personale. Portando quella del nipote al 62,5% della holding Dicembre. Un ragazzo solo al comando. Che così, nella successione al potere, scavalca la madre e i suoi sette fratelli e sorelle. Un’ultima volontà che in pratica «cancella» una generazione di Agnelli, dal momento che l’unico fratello di Margherita, Edoardo, ragazzo sensibile e fragile a cui lei era legatissima, era morto suicida nel 2000, gettandosi in pigiama giù da un ponte. Più per un vuoto di sentimenti che per la defenestrazione dal potere decisa dal padre.

Margherita, senz’altro amareggiata, pare però rassegnarsi e consolarsi con i 109 milioni di euro ricavati dalla cessione alla madre delle quote (donna Marella le passerà in buona parte a John), più altri ricchi conti bancari, prestigiosi immobili e collezioni di opere d’arte lasciate a lei dal padre. Qualcosa che tutto assieme si dice ammonti a un miliardo e 166 milioni. Qualcosa da mettere il cuore in pace, per la tranquillità dei giorni a venire, a qualsiasi madre, pur se come lei assillata dal pensiero di altri sette figli da «tirar su».

Ma quell’assillo diventa un tarlo vorace. Comincia a pensare che ci siano altri beni del padre, nascosti chissà dove, in qualche inviolabile «scatola cinese» o in paradisi fiscali che lei ritiene le siano tenuti nascosti dagli uomini di fiducia del padre, in primis Gabetti e Grande Stevens. Non le va giù di non aver mai saputo chi le abbia materialmente versato sul suo conto svizzero a Zurigo (e dove sennò, una Agnelli, a Pinerolo?) i 109 milioni di euro ricavati dalla cessione della quota. L’identità di quel «chi», la filiale zurighese della Morgan Stanley si è sempre rifiutata di rivelarglielo. Viene poi a sapere di una fondazione nell’impronunciabile, ma soprattutto inviolabile, staterello del Liechtenstein. Gratta gratta, annusa che sotto il mitologico nome della fondazione, Alkyone, si celino sparsi in diversi trust offshore altri 570 milioni di euro.

Margherita non ci sta. E attacca. Uno su tutti, Gabetti, al quale scrive che «si è permesso di offendere il sentimento a me più caro, l’amore per mio padre». Poi passa alla madre, con la quale giunge però a sottoscrivere, nel marzo 2004, un trattato di non belligeranza favorito forse dalle prove d’abito e dalla scelta delle bomboniere per le imminenti nozze (a settembre) del figlio John con la principessa Borromeo. Nel documento si legge che «Madame X (Marella, ndr) si impegna durante la sua vita a non intraprendere nulla che possa impedire a Madame Y (lei, Margherita, ndr), in caso di decesso di Madame X, di ottenere la libera disposizione di tutti i beni». Elenco dei quali, controfirmato dalla madre - si dice qualche rigo più sotto - lei avrebbe dovuto disporre.

Sembra davvero scoppiata la pace. Invece è ancora guerra. O meglio un focolaio, mantenuto allo stato di braci ingannatrici fino al 2007, quando Margherita vi soffia sopra riportandole al loro vivido e autentico rossore. Cita in giudizio i tre «Avvocato Boys» (Grande Stevens, Gabetti e Maron) che papà Gianni aveva schierato come ringhianti doberman a protezione della Fondazione Alkyone. Con l’unico risultato di provocare un «serrate le file» di tutta la famiglia. Le voltano le spalle i figli John e Lapo, mentre le quattro sorelle di Gianni, in una lettera che gronda fiele, la accusano di aver portato «attacchi contro tua madre e le persone che godevano della completa fiducia di tuo padre. Desideriamo farti sapere che nessuna di noi condivide la tua posizione». Colmo dei colmi, nell’agosto del 2006 non la invitano nemmeno al battesimo del nipotino Leone, primo erede di suo figlio John.

Il peggio, però, è che le questioni di casa Agnelli (compresi i recenti accertamenti fiscali avviati sulla vedova americana e sulla sorella di Giovannino), i documenti su Alkyone e perfino quelli su un conto da 9 milioni di euro, dormiente presso il Credit Suisse, finiscono a causa sua sui giornali. Ovvero su quei «giocattoli», alcuni di famiglia, ai quali l’Avvocato, in vita, era uso far giungere soltanto ciò che piaceva a lui. Lo faceva lasciando cadere a ogni uscita pubblica, con inarrivabile e annoiata nonchalance, lo spunto per almeno quattro titoli di testa in altrettante pagine del giorno dopo: di politica e di economia, sul calcio e sulla Formula uno.

Coniando magari frasi a prima vista qualsiasi - tipo la più famosa, «la festa è finita» - che però in bocca a lui assumevano valenza di citazioni storiche, degne poi di sdraiate e totalmente acritiche esegesi scalfariane.

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