Senza figli l’Italia invecchia ma l’Unione pensa ai Pacs

Da un numero di anni di cui s’è perso perfino il conto, si sa qual è il problema principale che insidia la “famiglia” italiana: è quell’1,2 per cento di figli per donna, in media, che fa della nostra comunità nazionale la più vecchia del pianeta. Vecchia in tutti i sensi e a tutti i livelli, come d’altronde testimonia la stessa classe istituzionale del Paese, tra i dieci e i vent’anni più anziana rispetto a quella di qualunque altra nazione d’Europa (e del mondo). Di per sé, l’invecchiamento generale rappresenta un gran bene. Sia perché conferma quanto sia cresciuta l’aspettativa di vita in Italia, sia perché l’esperienza e la saggezza degli adulti costituiscono una risorsa preziosa, da “interesse nazionale”. Ma tale risorsa rischia di inaridirsi, se non è accompagnata dalla contemporanea crescita delle giovani generazioni secondo un equilibrio naturale e secolare.
Invece, chi di queste cose s’occupa nel governo e nel Parlamento, è come se vivesse in un altro Paese, e forse in un’altra era. Perché al posto del dibattito da promuovere subito e delle misure da adottare senza indugi per risalire la china di quell’1,2 che incombe sul futuro dell’Italia, si prendono delle scorciatoie da vicolo cieco. Per esempio dedicandosi alla comica revisione dei cognomi e dell’ordine dei cognomi da assegnare ai figli, quasi che per milioni di famiglie fosse una priorità assoluta dare a quell’1,2 per cento di eredi il nome di mamma o di papà (o di entrambi, o di ciò che magari potrebbe decidere la monetina in caso di litigio). A ciò s’aggiunge l’ostinata volontà dell’esecutivo di legiferare su ciò che vive di vita sua proprio perché non è vincolato alle leggi, ossia la libera convivenza in libero Stato. E sullo sfondo regna l’indifferenza, per converso, per la poligamia di fatto, rinata e arcaica versione di un maschilismo di cui s’era perduta quasi ogni traccia dopo il Sessantotto (dicevano).
Dunque, da una parte c’è la realtà dei «sempre meno figli», e fatti o adottati sempre più tardi; realtà che riflette la mancanza di speranza e l’egoismo tipici di una società benestante, e che inoltre incide pesantemente sulla previdenza, sull’assistenza, sull’immigrazione, sul lavoro, insomma su tutto ciò che «fa politica». Dall’altra parte si gioca alla battaglia navale dei cognomi, e s’inventano bozze cavillose per distinguere i singoli conviventi dalle unioni di fatto; e queste dai Pacs; e questi dalle famiglie. Come se l’emergenza percepita nella società fosse quella di riscrivere la Costituzione che, sul punto, non si presta a equivoci. E che tra l’altro stabilisce l’unica cosa sul tema da troppi anni inattuata: la Repubblica «protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo” (articolo 31). Sarebbe bastato e basterebbe dare seguito a questa prescrizione costituzionale per rovesciare la tendenza dell’1,2 per cento del declino. Nella stessa discussione sui Pacs nessuno ha finora posto il quesito sul diritto in fondo più «attuale» da assicurare alle convivenze. Diritto che non è quello a prerogative già oggi ottenibili (tipo l’eredità, l’assistenza del partner, il subentro negli affitti e così via), ma quello ad avere figli. Tanto più che la previdente Costituzione ha pensato bene di tutelare il diritto dei bimbi all’istruzione e all’educazione «anche se nati fuori dal matrimonio» (articolo 30).
La battaglia per i Pacs e l’iniziativa sui cognomi in corso al Senato avrebbero ben altra credibilità - e susciterebbero maggiore attenzione dei cittadini - se avvenissero davvero nell’esclusivo o prevalente interesse dei figli. Così come il matrimonio aumenterebbe la forza attrattiva di cui in Italia ha goduto per tradizione, anche se non si tollerasse la sua plateale negazione di fatto con forme di strisciante poligamia. Posto che il matrimonio è «ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi», come ricorda un altro articolo della mai tanto disattesa nostra Costituzione.
f.

guiglia@tiscali.it

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