Sepe, l’ omino senza nome fugge nella «casetta» dei sogni

Alla Comunità di Roma l’attore-regista racconta il suo mal di vivere

Enrico Groppali

Conosciamo Giancarlo Sepe e siamo affezionati fruitori della Comunità, il minuscolo spazio romano in cui, nonostante i successi l'abbiano portato in direzioni spesso divergenti dai suoi lontani esordi, il famoso regista fa ogni volta ritorno. Come il figliol prodigo del racconto biblico che, al punto nevralgico della sua dissipazione esistenziale, sente la necessità di confrontarsi col luogo-grembo, Sepe approda novello Ulisse alla sua piccola Itaca. Ma stavolta, nei tempi bui che gravano peggio di un ciclone sul teatro italiano, il regista sente il bisogno di confessare in prima persona le radici avvilenti del proprio sconcerto. E per farlo si tramuta in una sorta di esasperato e disperatissimo Monsieur Hulot che, vittima di un'atroce malattia, strabuzza gli occhi, riduce guance, bocca e mento alle dimensioni di un imbuto, stravolge pupille ed eloquio a un feroce cachinno.
Mentre, col gesto elusivo dell'ultimo romantico sopravvissuto a una mutazione genetica, osserva con rimpianto gli antichi compagni di scena. Visto il degrado culturale che ci affligge, e la conseguente impossibilità di proseguire il proprio cammino di indefesso operatore di cultura, l'omino senza nome in cui si è tramutato Giancarlo decide di edificare, sulle rovine della civiltà industriale, la «casetta» dei sogni di un'infanzia perduta. Nella quale, alle soglie di un innominabile hinterland suburbano, farà teatro accogliendo i superstiti spettatori ansiosi di misurarsi col magnifico mistero della poesia.
A somiglianza di Dorothy, la fata-bambina del Mago di Oz, l'omino Sepe decide di azzerare lo spaventoso degrado di quei tempi nuovi che si dichiara disposto a combattere con tutte le sue forze facendo risuonare in questa inedita Zattera della Medusa sprofondata tra il fango della periferia industriale il verso immortale del passato come le inedite testimonianze del pensiero umano nascoste tra le pieghe di quel presente che minaccia di travolgerci.

Sfilano, come in un Brecht post litteram i titoli degli spettacoli che la Comunità ha visto nascere, prorompono malinconiche le musiche swing e il canto accorato di Léo Ferré, e mentre le pareti si dilatano, scoppiano e si spezzano chi miracolosamente si salva è sempre lui, l'uomo che crede nella poesia dell'esistere.

LA CASETTA - scritto, diretto e interpretato da Giancarlo Sepe. Roma, La Comunità, fino al 3 luglio.

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