La palla - insegnava il professor Gianni Brera, per caso e non per scelta finito a sporcarsi le dita dinchiostro discettando di fùtbol&affini - segue geometrie di labile e pur nitido disegno. In fondo, come la sua stessa vita, spuntata - anno di scarsa grazia 1919 - sulle rive del Po, a San Zenone, svezzata sul campetto delloratorio di San Bartolomeo, cresciuta a Milano tra via Catalani, dove abitava, e le redazioni dei vari giornali dove lavorò - dal Guerin Sportivo alla Gazzetta, dal Giorno al Giornale di Montanelli fino alla Repubblica di Scalari - e dissipata tra stadi e ristoranti di mezzo pianeta, fino a schiantarsi - robb de matt - su uno stradone della Bassa, tra Codogno e Casalpusterlengo di ritorno da una serata di chiacchiere, calcio, polenta e pannoso Barbera. Erano i giorni di Natale del 1992. Unesistenza intravista fin dagli inizi in una sfera magica, quella di Gianni Giuânn Brera il quale - padano di testa e di gola - iniziò gloriosamente da center-half metodista nei ragazzi del Milan e concluse trionfalmente da cantore omerico dellarte della pedata.
Quando il Brera discettava, con penna o lingua, della dea Eupalla, i tifosi (e i tecnici) zittivano.
Grande affabulatore e romanziere mal-espresso, storico in pectore e studioso indefesso di letteratura e antropologie varie, Brera - scriptor optimus - brillava di classe e saggezza quando era costretto (sì, costretto: per lui fu sempre una fatica) a narrare di football, o soccer, o fùtbal, lè istess. Una penna insuperabile: allepoca, ossia negli anni Cinquanta (nel 49, trentenne, era già direttore della Gazzetta e predicava il Santo Catenaccio), gli anni Sessanta (quando era prima firma del Giorno con Del Buono e Clerici), negli anni Settanta (quelli di Riva «rombo-di-tuono» o «tutto-fuoco», delle «due memorabili ore di calcio istintivo» di Italia-Germania 4-3, della Juve dellultimo Altafini), negli anni Ottanta (le cronache fan-ta-sti-che di España 82 dellItalia Tricampeòn Mundial). E insuperabile ancora oggi, anno 2000 e 8, se si rileggono le pagine mirabolanti scelte per una nuova super-antologia accademica, nel senso di Brera (Gianni Brera, Il più bel gioco del mondo, Bur; a cura di Massimo Raffaeli): pezzi che fanno davvero storia.
Dire che Gianni Brera sdoganò lo sport, e il calcio in primis, portandolo ad essere un pezzo di cultura «alta» e che regalò alla lingua italiana espressioni mai udite prima e oggi entrate nelluso comune, è sacrosantamente giusto. Ma riduttivo. Brera ha fatto di più. Ha (re)inventato uno stile, proseguendo da maestro (anche se lui ovviamente negava) su quella «linea lombarda» che va dallo scapigliato Carlo Dossi attraverso il gaddiano Carlo Emilio Gadda fino al furente Giovanni Testori: scrittori che adorano il gioco sintattico e le sterzate lessicali, che saltellano dallaulico al popolaresco, che rimescolano vocaboli latini e lombardi, tecnici e gergali... Per Brera la scrittura è esattamente come il calcio: «una pantomima euclidea fondata sul nerbo atletico e sullabilità giocolieristica». Dove eccellono i coraggiosi, i furbi, i generosi, i ricchi di estro.
Giovanni Luigi (Gianni) Brera fu coraggioso, a suo modo furbo, generosissimo - nelle amicizie, nello scrivere, nel mangiare - e straricco di estro. Dopo di lui, giornalisticamente parlando, la siccità. Che genio, Gianni Brera.
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