nostro inviato a Torino
Sessanta giorni da ieri: scadrà nel periodo natalizio il termine che Sergio Marchionne ha posto per verificare la governabilità degli stabilimenti del gruppo automobilistico in Italia. Il modello Pomigliano, dove investimenti e lavori di adeguamento delle linee sono già stati avviati, dovrà essere replicato negli altri impianti. Come? Ricorrendo alla Newco, come è avvenuto in Campania, oppure attraverso altre soluzioni che evitino alla Fiat incidenti di percorso (Melfi docet). Nei prossimi giorni Marchionne e la squadra delle relazioni industriali affronteranno il rush finale: l’incontro, ai primi di novembre con il nuovo ministro allo Sviluppo economico, Paolo Romani, e il confronto con i sindacati, stabilimento per stabilimento, allo scopo di chiudere il cerchio prima di Natale. La posta è altissima: il rilancio del sistema industriale del gruppo attraverso il progetto Fabbrica Italia, che equivale a un investimento di 20 miliardi.
Marchionne va avanti per la sua strada, sempre più stupito e indispettito delle feroci polemiche e del clima da anni di piombo che l’atteggiamento ostile e irrazionale della Fiom ha generato nel Paese. «Paura io? Guardare a me come un problema non risolve un bel niente. Anche se ci fosse un “Marchionne 2” il problema di un sistema che non funziona resterebbe», ha risposto il top manager a chi, tra i suoi collaboratori, gli ha chiesto di commentare la minacciosa comparsa sui muri delle città della stella a cinque punte accanto al suo nome («Marchionne sfruttatore»).
L’amministratrore delegato del Lingotto, rientrato ieri mattina piuttosto malconcio (tosse e forte raffreddore) dopo l’ultimo tour de force che lo ha portato, prima in Cina e quindi negli Usa, guarda intanto a Confindustria e a Federmeccanica confidando nel colpo di reni decisivo per far decollare il progetto. Il famoso Piano B, quello che escluderebbe l’Italia dai futuri investimenti del gruppo, è sempre in bella evidenza sulla scrivania del top manager: dirottare le future produzioni in Polonia o in Serbia, dove la capacità produttiva può facilmente arrivare a 700mila e 400mila unità, richiede solo una firma. E il blitz recente, cioè lo spostamento da Mirafiori alla fabbrica serba di uno dei futuri modelli torinesi, sta a dimostrare come Marchionne sia di parola e non si faccia condizionare. Nemmeno l’imminente cambio al vertice della Cgil, con l’arrivo della tenace Susanna Camusso al posto del «signor no» Guglielmo Epifani, sembra dare all’amministratore delegato della Fiat la speranza di trovare un interlocutore meno rigido. Marchionne, in proposito, è pronto a proseguire il dialogo con gli altri sindacati, senza rispondere alle provocazioni di Maurizio Landini (Fiom), consapevole che più il tempo passa più diventa complesso il lavoro di raccordo portato avanti da Raffaele Bonanni (Cisl), Luigi Angeletti (Uil), Roberto Di Maulo (Fismic) e dalle tute blu che hanno sposato il progetto: «C’è ancora tanta gente che ha voglia di lavorare», il commento recente dell’ad. Per sbottare subito dopo: «In Italia mi mancano i modelli perché non riesco a farli partire».
La rinascita della Chrysler, intanto, fa sempre scuola: a Detroit e dintorni le polemiche lasciano il posto ai fatti.
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