SETTIS «L’arte non è una torta da spartirsi»

Parla lo studioso che è sceso in campo nella battaglia in difesa del patrimonio: pubblico e privato devono convivere

La sinistra ne ha fatto un eroe nella battaglia contro la temuta svendita del patrimonio pubblico (il famoso vogliono vendere il Colosseo). Lui invece ha intitolato il suo ultimo libro Battaglie senza eroi (Electa, pagg. 410, euro 18), perché, dice, «in queste battaglie di eroi non ce ne sono. Ci sono solo perdenti. E il principale perdente è il patrimonio italiano». L’ottimismo non si spreca. E non si può dar torto al professor Salvatore Settis, calabrese, 64 anni, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, storico dell’arte che negli ultimi anni ha tradito l’amato Giorgione e gli antichi greci per impegnarsi in una battaglia persa.
Un masochista o forse solo un utopista, come tutti quanti, da Antonio Cederna a Leonardo Borgese a Giorgio Bassani, hanno sprecato tempo ed energie nel denunciare il degrado del patrimonio italiano. Se percorrendo una costa, prendendo un’autostrada, girando per la provincia o per una periferia inorridite per quanto vedete, potete proseguire nella lettura. Se pensate che negli ultimi cinquant’anni non abbiamo costruito case orribili, chiese mostruose, capannoni industriali, outlet e centri commerciali che gridano vendetta, se pensate che il cemento sia un inevitabile conto da pagare al progresso, questa intervista non fa per voi.
Il nocciolo del problema sta nel definire il ruolo di Stato e privati nella gestione del patrimonio. La questione è più che mai attuale nei momenti di vacche magre: quando si parla di finanziarie, i tagli più pesanti sono sempre alla cultura. Lo si vede oggi, ma nel 1992 fu anche peggio. La famosa manovra «lacrime e sangue» da 92mila miliardi di lire del governo Amato colpì al cuore i beni culturali, tanto che l’allora ministro Ronchey corse ai ripari con una legge per facilitare l’ingresso dei privati (la cosiddetta «legge Ronchey» che si ricorda erroneamente solo per aver permesso l’apertura dei musei alle caffetterie e al merchandising). Tredici anni dopo il ministro Buttiglione ha minacciato le dimissioni dichiarando che non sarà lui a chiudere la Scala.
Professor Settis, su questo giornale Stefano Zecchi (assessore alla cultura del Comune di Milano) è stato l’unico a sostenere una tesi eretica: ha scritto che i tagli alla cultura sono giusti perché così si eliminano gli sprechi. Lei che dice?
«Ho letto quel pezzo. Anch’io sono convinto che ci siano sprechi e che vadano eliminati. Ma penso che il metodo sia sbagliato: tagli indiscriminati non significa che si elimini il superfluo invece che l’utile. La moralizzazione della vita pubblica non passa per questi tagli».
Lei ha guidato per sei anni il Getty Research Institute di Los Angeles. In Italia si guarda all’estero come al modello dove il privato funziona benissimo e lo si porta come campione di buona gestione. È così?
«Questo è il primo di una serie di equivoci. Non esiste un modello americano. Il Metropolitan o il Getty (dove tra l’altro si entra gratis) sarebbero già chiusi senza contributo pubblico. Il Metropolitan riceve oltre un miliardo di dollari ogni anno dal Comune di New York».
Quindi lei è per sovvenzionare l’arte?
«Altro equivoco: è arte sovvenzionata questa? Se vogliamo chiudere, tagliamo pure i contributi. L’esito sarebbe questo. In Italia con il criterio del biglietto che copre il costo resterebbe aperto solo il Colosseo. Anche gli Uffizi chiuderebbero. Il discorso da fare è invece sull’indotto. Nei primi anni Ottanta una banca svizzera fece i conti per la città di Zurigo: le biglietterie non coprivano i costi dei vari musei, ma era tutto l’indotto a incidere in modo rilevante sull’economia della città. Nessun museo al mondo riesce a coprire più del dieci per cento delle spese con la sola vendita dei biglietti, anche se molti illustri economisti sostengono il contrario».
Ma lo Stato da solo, come si è dimostrato, non ce la fa. Si può conciliare la cultura con il mercato?
«Pubblico e privato non solo possono, ma devono coesistere e collaborare. Però il dialogo si può sviluppare solo quando il pubblico è forte. Invece adesso la presenza del privato ha portato un calo della cura e dell’attenzione da entrambe le parti. Anche alla base di questo c’è un grande equivoco».
Un altro equivoco, quale?
«Che il patrimonio abbia una redditività immediata e che ci sia una grande torta da spartire. Invece si litiga su una torta che non c’è».
Perché la torta non c’è? Siamo il Paese con il maggior numero di siti riconosciuti dall’Unesco, con il maggior numero di opere d’arte, musei, chiese. Non è una bella torta?
«La torta se anche c’era è finita nel momento in cui Regioni, Province e Comuni hanno iniziato a pensare che il patrimonio culturale avesse ricadute d’immagine sfruttabili a fini politici. Adesso invece siamo in mano a micro-lotte marginali che penalizzano la visione d’insieme, bisognerebbe ridistribuire le parti tra Stato e Regioni».
Lei critica pesantemente l’aver distinto la tutela del patrimonio attribuita allo Stato e la gestione del patrimonio alle Regioni. Perché?
«Perché le due funzioni spesso si sovrappongono e non è facile definire cosa è tutela e cosa è gestione. Con il risultato che se il bene è appetibile ci sarà una corsa ad occuparsene, altrimenti ci sarà uno scaricabarile. Se devo risuolare delle scarpe è tutela o valorizzazione? O non le risuola nessuno o lo fanno entrambi. Occorre un patto nazionale per la tutela a cui partecipino tutti».
Il primo a usare la Cultura per la ricaduta d’immagine è stato Walter Veltroni, che da vicepremier assunse anche la carica di ministro dei Beni culturali e vi unificò spettacoli e sport.
«Fu un grande errore. Quello di Veltroni fu un tentativo di dare più centralità al ministero, ma sbagliò perché non si possono gestire gli stadi, i fondi del cinema e dello spettacolo insieme con i musei e il patrimonio artistico. Io trovo ottima la proposta fatta dal giurista Fabio Merusi sul Giornale dell’arte: scorporare il ministro della Cultura e consegnargli come proprio patrimonio e il demanio culturale».
Invece in Italia il ministero dei Beni culturali è sempre stato la Cenerentola di ogni governo. Non le sembra assurdo?
«È marginale per un problema storico, perché quando fu creato nel 1974, Giovanni Spadolini si limitò a farne una branca amministrativa rispetto alla Pubblica istruzione. Non si creò quindi una nuova struttura, non ci fu un progetto politico, ma solo burocratico».
Lei ha anche scritto che i nostri ministri dei Beni culturali «si comportano come i peggiori nemici del patrimonio che dovrebbero amministrare»...
«Era una provocazione, ma in verità i Beni culturali sono spesso andati a persone non motivate. Storicamente venivano dati a partiti che non contavano politicamente e questa marginalizzazione ha avuto pessime conseguenze sul patrimonio».


Tra le tante battaglie perse, una almeno l’ha appena vinta, e non secondaria: è stata abolita la norma che prevedeva il silenzio-assenso delle Sovrintendenze nella vendita dei beni demaniali. Contento?
«Una piccola battaglia non significa vincere la guerra. Il silenzio-assenso è scomparso, ma l’approvazione finale deve ancora arrivare...».

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