SEVESO Trent’anni fa la nube di diossina I ricordi di chi quel giorno respirò veleno

Il 10 luglio del 1976 l’incidente al reattore dell’industria chimica Icmesa: un libro raccoglie le storie dei protagonisti e svela misteri e silenzi del disastro ecologico

Franco Sala

Quelli della Diossina: è il titolo del libro sul dramma ambientale di Seveso che viene presentato in questi giorni, in occasione dei trent’anni dalla tragedia, scritto dal giornalista Diego Colombo e che raccoglie le storie dei protagonisti, le vicende, le polemiche che hanno caratterizzato il disastro ecologico più grave mai avvenuto in Italia. L’autore non si è limitato a raccontare la cronaca, la storia della diossina, gli effetti che ha provocato. Ha approfondito tutti gli aspetti del dramma iniziato quel maledetto 10 luglio 1976, quando alle 12,37 «la nuvola bianca» si sprigionò dal reattore A 101 della famigerata Icmesa, la «fabbrica dei profumi», come la chiamavano gli abitanti della zona. Il libro rileva frammenti di vite sconvolte, segnate per sempre dal veleno «sputato» su persone, animali e case.
Diego Colombo mette in luce le polemiche sull’aborto che fu autorizzato - per le gestanti esposte alla diossina - con un decreto del governo guidato da Giulio Andreotti (che aprì la strada alla legge 194), e poi le difficoltà della bonifica, le reticenze dei responsabili della Givaudan, la multinazionale svizzera proprietaria dell’Icmesa, l’evacuazione d’intere famiglie. La ricostruzione è puntuale, dettagliata. Racconta di «una donna calabrese trapiantata nel quartiere Polo di Meda, madre di otto figli, un aborto alle spalle, che si presenta alla clinica Mangiagalli con le ciabatte e la camicia da notte in una borsa di plastica e dice: «O mi fanno abortire qui, oppure vado al paese e mi libero lo stesso». E di Livia, incinta di tre mesi, cattolica e decisa ad avere il figlio concepito poco prima della nube che s’indigna, quando un medico le racconta: «Non è poi la fine del mondo se il bambino nasce senza un braccio...».
Il lavoro di Colombo si ferma al 1984. L’autore non s’infila nell’intricatissima questione delle controversie giudiziarie ancora oggi aperte su diversi fronti. Ha preferito soffermarsi sulle storie tristi, drammatiche della gente, dei primi anni di confusione. Scrive che l’Icmesa produceva triclofenolo, un componente per gli erbicidi più potenti preparato solo in Italia e in Turchia, per poi prendere la strada di «consociate svizzere e americane della fabbrica situata al confine tra Seveso e Meda». I problemi legati alla salute vennero presto alla luce. Chi lavorava nell’Icmesa dopo l’incidente accusò danni al fegato. «Non esiste in atto nessuna nube di gas tossico», recitava il comunicato ufficiale del prefetto Domenico Amari, diramato il 22 luglio: la conferma del caos che regnava di fronte all’evidente disastro. Quando il 3 agosto Herwing Von Zwehl, direttore generale dell’Icmesa, e Paolo Paoletti, direttore di produzione (ucciso il 5 febbraio 1980 da un commando di Prima Linea), finiscono in carcere, la gente è ancora nelle proprie case. Qualche giorno dopo il prefetto ipotizza di utilizzare i lanciafiamme al napalm per incenerire la vegetazione. Replica del generale dei carabinieri Antonio Anzà: «Tutte fregnacce». In quei momenti nessuno ha le idee chiare per iniziare i lavori di bonifica della zona contaminata. Alcune abitazioni furono ripulite dalle squadre delle tute bianche. Operazione bizzarra, perché l’autore del libro precisa «che un addetto alla bonifica, colpito da strani sintomi dopo qualche mese di lavoro, riferisce al Pretore di Desio che le acque usate finivano negli scarichi delle vasche da bagno».
Le crude cifre, relative agli effetti sulla salute, sono inquietanti. Lo studio epidemiologico eseguito dal professor Pietro Alberto Bertazzi sulla mortalità tra il 1976 e il 1991 è da brivido. Raddoppiati i morti per tumore al pancreas, tra gli uomini residenti nella zona A. Aumentati quelli alla vescica.

In zona B, triplicati i casi di cancro al retto, come per le persone che si sono ammalate di leucemia. Dati pubblicati dalla Fondazione Lombardia per l’Ambiente, come quelli dei bambini nati con malformazioni. «Accuse strumentali», liquidò all’epoca l’Ufficio Speciale per Seveso.

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