La «Sex pistols» alla tempia del rock

Il cuore del r’n’r si è fermato per la terza volta. Era già accaduto a Memphis il 16 agosto 1977 quando morì Elvis, poi a New York l’8 dicembre 1980 quando John Lennon venne ucciso da un fan squilibrato davanti casa. La storia del rock è costellata di lutti, certo, ma la fine di Malcolm McLaren, portato via tre giorni fa dal più comune dei modi di morire, il cancro, assume un significato davvero particolare: il sigillo a un’epoca che ha rappresentato l’ultima rivoluzione passata dalla musica allo stile, dal costume alla cultura. Anche se sono in molti a rivendicare il diritto di primogenitura del Punk, un po’ come accadde per la Pop Art e il Beat, se non ci fosse stata la boutique al numero 430 di King’s Road a Londra il mondo sarebbe girato da un’altra parte.
Nato nella capitale inglese nel ’46, studente di arte al Croydon Art College negli anni Sessanta, ex venditore di auto usate, gran fiuto per gli affari, provocatore anarchico innamorato del Maggio Francese (diversi slogan del periodo finirono sulle sue magliette, come «prendo i miei desideri per realtà perché credo nella realtà dei miei desideri») e dello scandalo, Malcolm è deciso a far rivivere il vecchio motto épater la bourgeoisie. Nel ’74, con il suo compagno di studi Jamie Reid pubblica la prima antologia in inglese degli scritti situazionisti di Christopher Gray, Leaving the 20th Century. Di questo testo McLaren ammira «un’aggressività e un’arroganza eccitanti», la «bellezza di poter usare gli slogan senza appartenere a un movimento tipo vietato vietare, né dei né padroni, abbasso l’astratto, dopo l’arte Dio è morto, abbasso un mondo dove la garanzia che non moriremo di fame è stata comprata con la garanzia che moriremo di noia» che diventano i primi frammenti dell’estetica punk. Nel 1978, quando Syd Vicious verrà accusato dell’assassinio della compagna Nancy Spungen, McLaren finanzia la sua difesa con una serie di magliette con la scritta «I’m alive, she’s dead, i’m yours».
In un viaggio a New York, McLaren diventa amico dei New York Dolls, storica band glam rock, che non si fa alcun problema a esibire simboli nazisti, urlando e vomitando dal palco. Per un breve periodo lavora da manager per le Dolls, poi, tornato a Londra, decide che è ora di inventarsi qualcosa di nuovo e prorompente. Per promuovere il suo negozio di moda, aperto in società con la giovane aspirante stilista Vivienne Westwood, intuisce che gli serve un gruppo rock che incentivi la vendita dei suoi abiti.
Questa boutique ha cambiato nome già diverse volte: apre nel ’71 come «Let it Rock!» proponendo abbigliamento per teddy boys, nel ’73 cambia in «Too fast to live too young to die» e serve motociclisti e band giovanili. Nel ’74 compaiono in vetrina manichini nudi e la scritta SEX in lettere di plastica gonfiabile: pareti nere, attrezzature da sex shop, t-shirt inneggianti a Myra Hindleym, la donna che nel ’65 aveva ucciso alcuni bambini e la cui immagine verrà trasformata in icona da Marcus Harvey, uno dei pittori più provocatori degli young British artists (yBa) negli anni Novanta. Infine, nel ’77, il negozio diventa «Seditionaries».
Per realizzare il suo folle progetto, McLaren sceglie quattro ragazzi che girano intorno al suo negozio. Paul Cook, diciotto anni, apprendista elettricista, timido e anonimo, suona (male) la batteria. Steve Jones, chitarrista, di lavoro fa il ladro e ha all’attivo diverse condanne per furto di strumenti delle rockstar, tra cui un amplificatore dal backstage di David Bowie. McLaren li convince a creare un gruppo con il suo commesso Glen Matlock, studente alla St. Martin School of Art, che strimpella il basso. «Un bravo ragazzo che ascoltava i Beatles e si lavava sempre i piedi», questo il giudizio degli altri due su di lui. Troppo educato, lascia presto il posto a Syd Vicious.
Il nome della nuova band si ispira a quello del negozio, a cui va aggiunto Pistols, «pistola, arma da fuoco, assassini, giovani, viziosi, sesso» (sono parole di McLaren). Al cantante arriva Vivienne Westwod, ricordandosi di un ragazzo che aveva visto lì in giro. Si chiama John Lindon, meglio conosciuto come Johnny Rotten, un po’ Alex di Arancia Meccanica, un po’ barbone gentiluomo, proveniente da una famiglia povera, l’infanzia segnata dalla meningite, appassionato lettore di Shakespeare e William Blake, con gusti musicali piuttosto raffinati, dalla classica a Bob Marley. L’audizione è perfettamente esplicativa di quello che sarebbe diventato il mood del gruppo: Rotten appoggiato a un jukebox canta Eighteen di Alice Cooper con il telefono della doccia al posto del microfono. Viene scelto nonostante presto si scopra che Vivienne in realtà stava pensando a un altro John: tale John Simon Ritchie (o anche John Beverley) soprannominato Syd Vicious come il suo criceto. Syd proviene da un famiglia difficile: cresciuto tra gli squat, il suo eroe è il Lou Reed decadente del dopo Velvet Underground. Secondo McLaren, è davvero «un sex symbol. Strano ma efficace. Molto efficace. Veramente rock’n’roll».
Per questa avventura c’è bisogno di un’immagine altrettanto forte, dunque Malcolm McLaren coinvolge Jamie Reid affidandogli il ruolo di art director dei Sex Pistols, il suo design passa alla storia come il più irriverente e politically uncorrect nella storia della musica. Jamie Reid risponde positivamente alla richiesta di collaborazione: «Ho visto il Punk come una parte di un movimento artistico che è finito più di cento anni fa con i moti russi, Surrealismo, Dada e Situazionismo. \ I Sex Pistols sembravano perfetti per comunicare le idee direttamente alla gente che non si accontentava dei messaggi dei partiti di sinistra», dichiara in un’intervista ricordando quel periodo.
La parabola della band più trasgressiva del mondo finisce in poco più di un anno. Non certo la vicenda di McLaren, diventato a questo punto il più affidabile testimone dello spirito punk, misto di genialità e cialtroneria, ben più di Vivienne Westwood, che ha presto abbandonato lo spirito di un tempo per approdare alle passerelle internazionali, non mancando mai di ribadire il suo odio per l’ex compagno nonché padre del figlio Joe Corr, fondatore di Agent Provocateur, ben più delle periodiche reunion dei Pistols, che si rimettono insieme ogni volta che qualcuno li copre di soldi. Anche Rotten non si è lasciato bene con il suo mentore, e anche qui c’entra il denaro, ma tra i punk non corre certo gratitudine.
Forse per dimostrare (a ragione) che il vero genio era lui, Malcolm ha tentato, non senza successo, la carriera di musicista, incidendo nell’83 il primo album solista Duck Rock, intriso di climi e atmosfere tropicali, mix spregiudicato di afro, soul, caribe, cuba e scratch metropolitano. Disco imperfetto, cialtronesco, più geniale e più irritante di David Byrne, omaggio al terzomondismo molti anni prima di Joe Strummer con i Mescaleros, un compendio di dance globalizzata, Duck Rock mette insieme tre personaggi di indubbia caratura. Il primo è certamente lui. Il secondo Trevor Horn, già cantante dei Buggles e responsabile del tormentone Video Killed the Radio Star, produttore di rilievo negli anni Ottanta e Novanta, in grado di intervenire sul lavoro con mano pesante e di inaugurare la moda dei dischi realizzati dai producer. Il terzo è Keith Haring, nell’83 all’apice della fama e del consenso. Haring concepisce l’intero packaging dell’album, sia la copertina sia l’inserto che contiene un suo disegno in bianco e nero (potrebbe essere incorniciato come un multiplo). Nelle sei facciate in bianconero che compongono l’interno dell’LP, McLaren mescola foto del suo archivio personale con immagini di strumenti etnici, still da film e disegnini di Haring - i tipici motivi dell’omino, del cane che abbaia, del serpente, dell’astronave. Le dodici canzoni che compongono l’album sono commentate e chiosate da utilissime annotazioni antropologiche, supponendo che i fans di Malcolm non avessero particolare confidenza con suoni afro e caribe e fossero rimasti male, aspettando altri deliri punk. L’impasto è molto divertente, chiassoso, intrigante.
Dopo averla scoperta, McLaren abbandona subito la World Music.

Le sue successive fatiche discografiche - Round the Outside (1990) e Paris (1995) - virano in direzione house e cantautorato da vecchia Europa. Diavolo d’un impostore! Peccato non sia stato un musicista, altrimenti avrebbe fatto concorrenza a Frank Zappa.

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