La sfida dell'Abruzzo: "Noi non molliamo"

Una regione in silenzio, una popolazione che non s'arrende: c'è chi riapre bottega e chi distribuisce vestiti e speranze. La gente si rimbocca le maniche, nonostante tutto. e dà al Paese uno straordinario esempio di dignità

La sfida dell'Abruzzo: "Noi non molliamo"

L'Aquila - Da tre giorni sto frequentando un bellissimo supercorso di dignità umana. Col passare delle ore, l’Abruzzo si sta rivelando la migliore università del settore. Di sventure e di dolore, di lutto e di rabbia, insomma di creature afflitte e dolenti ormai ne abbiamo viste tante, passando da un cataclisma all'altro. Ma mai, lo dico da semplice testimone neutrale, ho ammirato un simile affresco di spontanea compostezza, di sano orgoglio, di rigoroso rispetto. L'Aquila e dintorni sono a pezzi, non c'è famiglia che non abbia un buon motivo per piangere, ma da questo girone infernale si alza solo silenzio, decoro, contegno. E voglia di ricominciare. Hanno volti stravolti dalla paura e dalle nottate allo sbando, soffrono le pene dell'inferno per la casa distrutta e per i prossimi mesi con il punto interrogativo, in molti sono schiantati dalla morte di madri e figli, eppure non si sente nell'aria un solo grido, un solo urlo, una sola scena madre. E gli insulti ai politici, e le bestemmie per il ritardo dei soccorsi, e le pretese di finanziamenti immediati: del solito quadro nazionale, che tante altre volte abbiamo contemplato, qui non c'è traccia. Nessuno qui pretende niente. Nel dopo terremoto, che in quanto a sofferenza sa essere pure peggio del terremoto, il lamento è muto. Che grande Italia sta venendo fuori dalla dignità degli abruzzesi.

Credo lo si possa prevedere chiaramente, senza essere Nostradamus: con questo spirito, questa gente si rialzerà molto presto. Da secoli conosce le regole del gioco: sa godere di poco, sa soffrire e combattere molto. Combatterà anche questa volta. Già sta combattendo. Con disciplina, senza fretta, senza isterie. È la forza, l’orgoglio, la tenacia. È una saracinesca che si alza per intravedere il futuro. Bisogna tirarsi su. C'è il panettiere che riapre subito il forno e distribuisce le pagnotte gratis. Ci sono i negozianti delle zone meno distrutte che provano a riattivare la routine di quartiere. Timidi germogli, nel magma esteso delle macerie e delle rovine. Ma precisi e incontestabili segnali di vita. Se poi la vita, nel suo eterno ed eccentrico gioco del dare e dell'avere, adesso esige e toglie molto, bisogna rispondere per le rime.

La signora Stefania piange la cara sorella, rimasta sotto le macerie all'età di 48 anni, assieme al marito. Adesso sta al sole di mezzogiorno, fuori dallo stadio del rugby, aspettando le assegnino una tenda. Anche lei, come quasi tutti, ha passato la prima notte in macchina, ricordando l'amata sorella, pensando alle prime cose da fare. Ma non c'è spazio per rabbia e rancori, in questo suo naufragio personale: «Che devo fa, sparamme?». Le ronza lì attorno un televisivo, cerca di scucirle un avanzo di polemica: ma signora, ha dovuto dormire in macchina, come mai non le hanno ancora assegnato la tenda? Lei lo guarda benevola: «Mi hanno preso nome e cognome, quanto prima me la daranno. Il tempo di montarle. Mica hanno la bacchetta magica, questi volontari...».

Non è un caso particolare. Nel viaggio dentro la precarietà e il disagio del dopo terremoto, incontro un sacco di incredibili personaggi che non solo evitano la critica malevola e facilona, ma addirittura difendono i soccorritori. Nonno Gino ha 88 anni, anche se ne dimostra almeno dieci di meno. È piccolo e tarchiato, ma nonostante il caos che ha sconvolto il suo mondo veste con giacca, gilet e coppola nera in testa. Emana una caldissima sensazione di stile semplice. Sta seduto su una panca, fuori dalla prima tenda della sua vita, a fianco della consuocera Raffaella (lei 84 anni). Il suo spirito è gagliardo: sono sincero, mi piacerebbe scippargliene almeno un po'. «Abitavo nel centro storico, non ho più la casa. Però sono qui con la mia famiglia: è quello che conta, non dobbiamo lamentarci. Dobbiamo solo sperare che questa sistemazione non duri a lungo. Bisogna ricominciare. Intanto, però, ci stanno trattando benissimo. Sono tutti bravi, tutti. Stamattina ci hanno portato pure le caramelle. Glielo dico e lei lo scriva: chi si lamenta è falso. Fa peccato. E basta».

Al suo fianco, la consuocera Raffaela ha gli occhi lucidi. «Non ce l'ho fatta a dormire in tenda: sono freddolosa. Alle due sono tornata in macchina. Non so come farò, nella mia casa non potrò più tornare. Sono nata lì, ci ho vissuto 84 anni, adesso è un mucchio di macerie. Spero solo che una soluzione arrivi presto: vorrei tanto vivere una vecchiaia serena». Guardandola intenerito, il nipote Alessandro mi dà di gomito: «La nostra villetta a schiera è solo danneggiata. Credo che rientreremo presto. E la nonna verrà a stare con noi. Ci mancherebbe...».

Sono giornate in cui i bisogni primari diventano nuovamente impervi. Nei campi degli sfollati è già un grande risultato fare colazione, sdraiarsi su un materasso, lavarsi. Ce n'è veramente abbastanza per cadere in prostrazione. Per rassegnarsi e avviare una legittima politica della lagna perenne. Ma non all'Aquila, non in Abruzzo. In questa Italia antica e tenace, i vecchi e i bambini stanno in tenda, ma le madri e i padri pensano già a riordinare le idee. C'è da dormire in macchina, si dorme in macchina. C'è da fare coda in attesa di una sistemazione, si fa coda. «Mica hanno la bacchetta magica, questi signori della Protezione civile...». Sotto un albero davvero poco frondoso, giusto qualche foglia d'inizio primavera, sta seduta su una seggiola nonna Domenica. Ha un foulard in testa, non muove un dito. È la statua del fatalismo. Le si avvicina una signora molto amorevole, le offre un bicchiere di latte. È sua figlia. «Sa - mi spiega - è molto stanca. Ha dormito in macchina, ma adesso ha proprio bisogno di stendersi. Mezz'ora fa le ho fatto l'insulina. Deve farla tre volte al giorno. Ha 88 anni, ha il diabete ed è cardiopatica. Eppure, vede? Non si lamenta, è di una tempra così».

Tenerissima nonna Domenica. Cardiopatica, diabetica, seduta in mezzo a un piazzale, sotto al sole, aspettando la sua tenda. È un'italiana che non vince Nobel, che non vince reality, che non vince nemmeno al Lotto: è solo una struggente nonna italiana di cui possiamo tutti quanti andare molto fieri.

Poco più in là, il giovane Alessandro, 22 anni, studente in ingegneria, consola mamma e zie, tenendosi per mano la fidanzata. «Siamo in dodici, come gruppo familiare. Nessun lutto, per fortuna. Dobbiamo adattarci, ma credo che presto la nostra casa sarà sistemata. Certo, ci vuole un po' di tempo: i tecnici hanno davanti un lavoro enorme. Ma con un po' di calma, ne verremo fuori. Bisogna guardare avanti, in certi momenti...». C'è ancora tutto da fare.

C'è ancora tanto da soffrire. Prima, bisognerà salutare con un giusto funerale i cari rimasti sotto le cataste dei detriti. Quindi, si riprenderà a lottare. Dice Orlando, un contadino che ha perso la cascina, in campagna: «Tutto quello che hai fatto finora non conta niente. Bisogna ricominciare da capo.

Ma come l'abbiamo fatto una volta, lo faremo anche la seconda...».

Cala la sera, sono in arrivo pure i temporali. Dentro le tende, chiusi nelle macchine, uomini e donne d'Abruzzo affrontano altre prove di sopportazione. Una nuova lezione dell'Italia migliore.

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