La sfida del Paese reale

È stato uno dei referendum più fallimentari della storia repubblicana. Eppure aveva avuto dalla sua un colossale apparato propagandistico. Il «Partito unico dei senza quorum» comprendeva tutti i potenti: dai più grossi giornali e media che bombardavano «a reti unificate», a tutta la sinistra (mobilitatissima, Cgil compresa), fino al quotidiano della Confindustria, poi pezzi della destra e lobby di ogni tipo. Ma non hanno convinto neanche la metà degli elettori del solo centrosinistra. Non significa forse che i Fassino, i Bertinotti, i Prodi sono stati sfiduciati dal proprio popolo in questa deriva radicale che già Augusto Del Noce aveva colto? È stata per loro una disfatta di dimensioni storiche.
Ma gli italiani hanno «sfiduciato» tutta una casta dominante: giornalisti, scienziati, politici, intellettuali, nani e ballerine, comici e cantanti. Per questo, potete starne certi, cercheranno di cancellare subito questo clamoroso avvenimento, minimizzando, parlando d'altro. Eppure è un nuovo 18 aprile. Gli italiani hanno deciso con la loro testa e nonostante il bombardamento mediatico è apparsa un'altra Italia che i giornali ignorano o disprezzano, l'Italia del buon senso e dell'umanità, un'Italia moderna e moderata, che si fida della Chiesa e pure del Parlamento e che crede in valori forti. Opposta ai salotti del nichilismo.
Ieri il Corriere della Sera - dopo aver cavalcato la campagna referendaria con una faziosità mai vista - alle prime avvisaglie della disfatta ha tentato una rapida marcia indietro (fuori tempo), facendo scrivere a Massimo Franco che «il vero scacco del fronte referendario è stato di continuare a immaginare un'“Italia reale” che esiste solo nella nostalgia degli anni Settanta e Ottanta».
Troppo tardi: da queste colonne l'avevamo scritto mesi fa, quando serviva, ma a quel tempo i grandi quotidiani e la sinistra hanno creduto alle balle e al fanatismo dei radicali. Per la precisione avevamo scritto il 16 gennaio: «La sinistra non ha capito che l'Italia non è più quella degli anni Settanta. Nemmeno sui temi della vita e della famiglia. E che somiglia più agli Stati Uniti di Bush che alla Francia e alla Spagna».
Non era difficile da capire. I dati veri erano noti. Ricordo che l'8 novembre scorso riprendevo un clamoroso sondaggio uscito sulla Repubblica che, pur essendo stato realizzato in un periodo in cui solo i referendari avevano fatto una campagna di stampa, dava risultati clamorosi: la maggioranza degli italiani era contraria alla trasformazione degli embrioni in cavie (il 44 per cento contro il 38,2). Si opponeva alla fecondazione eterologa il 50,1 per cento degli italiani (contro un 38,5 di favorevoli). Ancora più rivelatore del cambiamento profondo della società italiana dagli anni Settanta, era la domanda su altre grandi questioni come l'aborto. A sorpresa, solo il 29,7 per cento lo giudicava «moralmente accettabile», mentre il 44,4 lo riteneva «moralmente sbagliato». Inoltre il 52,9 per cento affermava che «la famiglia» è quella nata dal matrimonio, in Chiesa o in Comune. Il 62 per cento era contrario al riconoscimento del matrimonio gay (contro il 32) e ancor di più erano i contrari all'adozione di bimbi per coppie gay. Esattamente le stesse percentuali rilevate da Gallup negli Stati Uniti.
La Repubblica aveva tentato in ogni modo di censurare il parallelo con gli Stati Uniti di Bush. Ma invano. Anche per l'evidente ripresa di religiosità che negli ultimi mesi, con la morte del papa, si è mostrata con clamore. Non erano fatti episodici. C'era uno studio illuminante che più volte, da queste colonne, ho suggerito all'attenzione di opinionisti e politici. È la ricerca di Loredana Sciolla, La sfida dei valori (Il Mulino) che ha fotografato la tendenza costante degli ultimi 20 anni. Con gli Stati Uniti siamo l'unico Paese europeo in cui aumentano i «credenti praticanti» perché aumentano i giovani che si definiscono tali. E mentre le istituzioni dovunque sono in crisi di consenso, da noi sale sia la fiducia nei confronti del Parlamento che quella verso la Chiesa. La Sciolla parla di «controtendenza italiana simile a quella americana». Siamo l'unico Paese, in Europa, dove dal 1981 al 1999 l'indice di fiducia nella Chiesa passa dal 57 al 67 per cento e i valori tipici della mentalità laicista sono in forte arretramento soprattutto nelle regioni del Nord, quelle socialmente più avanzate. Chi si dichiara «non credente», dal 1981 al 1999, diminuisce dal 12,1 per cento al 6,6 (ancora più forte la tendenza fra i giovani tra i 18 e i 30 anni: «non credente» si definiva il 17,2 per cento nel 1981 e solo il 5,8 nel 1999). Una sparuta minoranza.
«Il problema - scrivevo il 16 gennaio scorso - è che questa sparuta minoranza occupa però gran parte dei mass media dove si ha il compito istituzionale di raffigurare quotidianamente l'Italia. Inevitabile dunque per questi mass media rappresentare una realtà che non c'è, se non nelle loro redazioni e nella loro generazione. Questa vecchia classe dirigente ha il monopolio della raffigurazione del Paese. È troppo chiedere uno sforzo di ascolto e di comprensione di questa nuova Italia?».
Questo sforzo non c'è mai stato. La mite e bella Italia cattolica di Radio Maria, dei pellegrinaggi a Loreto e dei rosari, quella cioè che ha vinto, in questi mesi è stata coperta di disprezzo (penso al programma di Gad Lerner e a decine di articolesse). Ancora ieri il Corriere dedicava grande spazio a Marco Pannella che si è scagliato contro il Papa con parole che fa tristezza ripetere.
A tanto arriva l'odio. Parole che fanno il paio con l'idea di minacciare di galera tutti i parroci italiani che dissentivano dai referendum. Fassino e Fini, Bertinotti e Prodi, hanno veramente creduto che l'intollerante anticlericalismo di Pannella, il suo fanatismo laicista, rappresentassero il futuro, quando sono invece un reperto archeologico, un relitto ottocentesco. Gli italiani hanno capito che dietro questi referendum c'erano solo furori ideologici e hanno buttato questi ferrivecchi nella pattumiera della storia (magari sperando che prima o poi siano i promotori di referendum inutili a pagarne l'allestimento).
Ma neanche molti «intellettuali cattolici» hanno capito il Paese. Mi ha colpito che ieri sul Corriere della Sera siano tornati a riveder le stelle due famosi intellettuali cattolici che credevo desaparecidos: Vittorio Messori e Giuseppe De Rita. Il primo è tornato sulla scena non per difendere le posizioni della Chiesa in questo referendum (sebbene più volte sollecitato si è sempre rifiutato), bensì con l'infelice intenzione di rilanciare l'ottocentesco «caso Mortara» (di cui nessuno sentiva il bisogno se non i seminatori di discordie che cercano lo scontro fra cattolici ed ebrei). È un modo per degradare la fede cattolica a ideologia. De Rita a sua volta non ha trovato di meglio che attaccare le «autorità ecclesiastiche» perché non hanno obbedito alle sue indicazioni (dimostratesi peraltro sbagliate).
Vengono in mente i versi di Eliot: «Dov'è la vita che abbiamo perso vivendo?/ Dov'è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza?/Dov'è la conoscenza che abbiamo perso nell'informazione?».


A questo punto, in un Paese normale, ci aspetterebbero mea culpa a raffica, dai direttori dei maggiori giornali ai segretari di partito fino a certi sondaggisti e a illustri editorialisti. Ma non ci saranno e da domani ci spiegheranno che gli italiani sono incivili e ottusi. E magari che la legge 40 va stravolta lo stesso.

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