Mino Martinazzoli lo ascoltò senza parlare. La Dc era una carcassa di balena, spolpata dagli avvisi di garanzia e lì, in quel che restava di Piazza del Gesù, nessuno aveva voglia di sorridere. Per sentire la sconfitta bastava annusarla. Berlusconi parlava e parlava, diceva che non si poteva lasciare l’Italia nelle mani di Occhetto, di una sinistra rinnegata dalla storia, da un Muro caduto. Qualcosa si doveva fare, magari un grande partito, che raccoglieva insieme i moderati, i liberali, i conservatori, magari la Lega e perfino la destra, i missini, quelli che Fini aveva portato al ballottaggio a Roma. Martinazzoli alzò gli occhi tristi e non capì: «Cavaliere, se proprio vuole fare politica, le posso offrire un collegio al Senato, da indipendente».
C’è un prima e un dopo. E due lingue diverse, troppo diverse. La questione è tutta qui e ha qualcosa a che fare con il Novecento. Berlusconi, uomo cresciuto nel vecchio secolo, lo sta strapazzando. Lo mette in discussione. Non è rimasto lì, ancorato, aggrappato. Non si sente un orfano. È questo il sale della sua politica. Magari fa male, fa bruciare certe cicatrici, ma è questo. Quando parla della sinistra, per ore, davanti ai delegati del Pdl, segna questa distanza. È la sua ossessione e la sua forza. Lui e il Novecento sono ormai due mondi lontani. È per questo che non si capiscono. Non c’è traduzione. E tutto è cominciato con quell’incontro. «Cavaliere, le posso offrire un posto al Senato». Orizzonti diversi.
Martinazzoli non capì e fu uno dei tanti. Non capirono nulla alla Rai. Non capì nulla la Juventus, e l’Inter, e gli altri. Non compresero cosa fosse «Drive In», con la comicità popolare di Vito Catozzo, non ancora romanziere da milioni di copie, con la sua panza da terrone del Nord, le sue pistole da vigilantes, la moglie obesa e con un figlio chiamato Oronzo, leggermente gay. Non capirono i tormentoni, porco il mondo che c'ho sotto i piedi. Non capirono Enrico Beruschi e le cosce nude delle ragazze fast-food. Non capirono che tutta questa tv da condominio agli italiani piaceva. Come non capirono le ripartenze di Sacchi, quello che non doveva mangiare il panettone, l’allenatore pelato, romagnolo, che dava i numeri, con quel 4-4-2 corto e stretto, dove i gol li faceva Van Basten, ma il sale, il sudore e il fiato ce lo metteva un certo Angelino Colombo, l’unico che il verbo di Fusignano definiva «indispensabile».
Non ha capito nulla la sinistra, naturalmente. E a lungo, praticamente fino a ieri, come ha confessato Violante: «Non capimmo che cominciava una nuova era. Quando registrò il suo primo messaggio pensammo che fosse una cosa poco seria. Ironizzammo». Berlusconi era l’ospite fuori posto, una nuvola passeggera, uno scherzo della storia, un «uomo qualunque». Poi vinse, perché in Italia, nel 1994 post Tangentopoli, c’era una crisi cupa, tutta nostra, senza neppure la scusa di una recessione globale e Berlusconi parlava di posti di lavoro, milioni. E in quel clima da tutti a casa, di sbando, la gente aveva bisogno di un po’ di fiducia. Non dei baffi di Occhetto. Berlusconi vinse, facendo sedere allo stesso tavolo il patriottismo di Fini e la secessione di Bossi. La sinistra fece «oh!» e quando si riprese dallo choc cominciò l’antiberlusconismo, che è qualcosa di più profondo di una sfida politica. È una rabbia viscerale, che ti scuote l’esistenza, qualcosa di pelle, rancore, odio, fastidio metafisico. Come si fa a votare uno così? Si chiedevano in certe stanze, in certi salotti. Berlusconi e il partito di plastica. Berlusconi e il kit del candidato. Berlusconi populista. Berlusconi e le televisioni. Berlusconi e le casalinghe teledipendenti. Berlusconi che racconta barzellette. Berlusconi e quelli vestiti come lui.
Quello che la sinistra non ha invece capito è il resto. Non ha capito che Berlusconi fa politica. Non ha capito che lui, poco alla volta, stava facendo i conti con il vecchio secolo. Lo stava archiviando, ribaltando i giochi. Il guaio, per la sinistra, che facendo questo interpretava anche il sentimento di molti italiani. Quelli stanchi di ideologie, di rosso e di nero, di guerre civili troppo lontane, di rotture di scatole ogni volta che provi ad aprire un negozio, un’impresa, un laboratorio artigianale. Quelli stanchi delle due repubbliche del lavoro, con una generazione iper garantita e un’altra, più giovane, fragile e precaria, senza paracadute, e senza futuro. È così che gli antiberlusconiani sono diventati i sacerdoti del Novecento. Sempre più reazionari, costretti a giocare in difesa. C’erano i precari e loro, insieme ai sindacati, non li hanno visti. C’era un Paese che faceva i conti con un mondo diverso e loro continuavano a parlare del passato. Loro santificano la Costituzione, resa una sorta di tabernacolo intoccabile e Berlusconi dice quello che in tanti sospettano. È vecchia, figlia di una guerra lontana e delle ferite fasciste. Berlusconi, può piacere o no, parla di cambiamento. Gli altri si arroccano. Il risultato è che non si capiscono. Quello che per lui è buon senso, per gli altri è bestemmia. La sinistra ha alle spalle un secolo e si vede moralmente e culturalmente superiore. Ergo: deve governare. Il risultato è un sentimento di aristocrazia politica, spesso supponente. E quando gli italiani si sono messi a votare quello lì, l’anomalia, è nato il problema. O sono sbagliati gli italiani o non funziona la democrazia. Oppure qualcuno imbroglia. Quindici anni così, con questo teorema sballato tra le mani. E l’odio che cresceva. Fino a scommettere sulla via giudiziaria, il tentativo di fargli fare la fine di Craxi o, meglio, quella di Cagliari e Gardini.
Berlusconi sul palco del congresso parla e parla. E dice ai suoi avversari: «Non avete capito nulla». E qualcuno dall’altra parte si chiede: magari quest’uomo non è solo barzellette e tv? È quello che fa Matteo Renzi a Firenze. È quello che dice Nichi Vendola.
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