Una sfinge di nome Kate Moss

Fedora Franzè

A Londra, nel bel mezzo di Trafalgar square da quasi un anno troneggia una scultura monumentale in marmo che raffigura una donna incinta, mutila di braccia e gambe. Inizialmente ha fatto scandalo; è parsa una provocazione inaccettabile. Dopo qualche tempo «Alison Lapper Pregnant» è diventata parte integrante del panorama urbano, simbolo di un modo diverso di pensare al corpo, una liberazione.
L'artista è Marc Quinn, classe 1964, uno dei più apprezzati «young british artists». Un artista che scandalizza fin dagli esordi. Adesso il Macro gli dedica una retrospettiva che rimarrà aperta nelle sale di via Reggio Emilia fino al prossimo 30 settembre.
Anche in questa occasione sono presenti sculture in marmo, maschili e femminili, con menomazioni eclatanti e una nutrita serie di bronzi e bronzetti in cui il corpo umano e animale è rappresentato solo parzialmente: niente teste, pochi arti, restano la colonna vertebrale, le vertebre e la gabbia toracica, aperti e vuoti, ispezionabili gusci di carne che ricordano, per le vie arcane di una materia enfatica come il bronzo, Rodin.
L’abitudine alle mutilazioni delle statue dell’antichità rende capace chiunque di poter godere della bellezza di quell'arte prescindendo da ciò che manca, in un’anestesia intellettuale locale che potenzia di fatto la comprensione globale, l’appagamento estetico.
In questo caso l’artista propone un’umanità realisticamente deprivata, degna di elevarsi ad oggetto d’arte, di vincere l’ipocrisia del «diversamente abile» da cui, se possibile, distogliere lo sguardo, in favore di un’inabilità urlata. Qual è il livello superiore accessibile a un costo tanto elevato? Non si possono guardare le opere di Quinn senza sentirsi dentro quei corpi, e non è un’operazione simbolica, è una realtà istantaneamente chiara. L’esperienza è intensa, succede di pensare che si possa aspirare a modelli di bellezza incompiuti e inefficienti, perché la bellezza e la completezza non sono concetti fratelli. In mostra figurano pure il ritratto (in frigorifero) del secondogenito dell'artista, modellato con placenta umana e cordone ombelicale; figure umane modellate in cera e sostanze medicinali, immerse nel sonno amniotico della propria dipendenza, adagiate sul pavimento ma che sembrano galleggiare; grandi pannelli su cui sono stampati fiori enormi dai colori smaglianti che aggrediscono gli occhi e l’idea stessa di naturalità; poi ancora disegni multicolori e una scultura, «Sphinx», dell’ultima musa di Quinn, la modella Kate Moss proposta in varie contorsioni. Sotto una delle sue immagini colorate compare un appunto esplicativo: «Kate as Venus as Nefertiti»; dalla Grecia all’Egitto alle passerelle internazionali, nel segno della deità rinnovabile. Antinaturale e tessuto di dipendenze, il mondo di Marc Quinn sembra ossessivamente (e paradossalmente) centrato sulla fisicità del corpo, su sangue, placenta, dna, sempre in tensione come se sopravvivere a stento fosse la vera normalità, appena sotto la superficie delle cose. Anche l’idea dell’eternità dell’arte è un’illusione, fragile come l’autosufficienza.
Meno ambiziosa Rä di Martino, giovane videoartista romana. È un altro dei talenti da scoprire in questi giorni; nelle sale del primo piano vengono trasmessi i video di vari artisti entrati nella collezione permanente del Museo.

L'opera di Rä di Martino è dedicata ai nati tra il 1965 e il 1975, al tema della memoria, che della durata se non dell’eternità è garante, e al ruolo dei media nell’identità generazionale.
Marc Quinn, fino al 30 settembre al Macro di via Reggio Emilia 54. Martedì-domenica 9-19. Info: 06-67107040.

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