Controcultura

Si battè fino alla fine contro la crisi d'identità del suo Giappone

Ossessionato dalla perfezione e dalla lotta al moderno, Mishima incarnò un ideale contraddittorio

Si battè fino alla fine contro la crisi d'identità del suo Giappone

Vita e opere di Yukio Mishima (1925-1970) avanzarono in un costante fluttuare tra l'eccellenza spirituale e un reiterato appello alle saggezze tradizionali del Giappone. Talvolta impenetrabili; altre volte, sulfuree e avvinte da un estetismo tanto raffinato quanto carnale e concreto, entrambe tentarono di plasmarsi intorno alla questione della decadenza.

Mishima esce disorientato dalla guerra. Non aver partecipato attivamente e aver assistito inerme alla sconfitta è ferita immane. Lo sdegno è però rivolto sin da subito - alle forze morali e culturali che iniziano a perdere potenza e vitalità per lacerarsi e imbruttirsi in un dopoguerra che si ristruttura intorno a frenesie consumistiche e alla degenerazione dei costumi. Quel Giappone in piena crisi d'identità, senza esercito e senza sovranità, con una difesa del territorio affidata agli Stati Uniti, non sarebbe stato a lungo accettabile. E infatti, man mano che procede avanti negli anni, avverte sempre più forte il disagio.

L'intreccio tra la fascinazione estetica e la ricerca della costruzione di un fisico perfetto che non raramente si volge a ossessione erotica, il tema della morte come questione omnicomprensiva che accoglie temi filosofici, psicologici e letterari e la sconfitta militare, li riproduce plasticamente nel martirio di San Sebastiano, fusione del suo ideale armonico «di penna e spada». E soprattutto li riproduce ne La difesa della cultura, una raccolta di sette saggi, per la prima volta in traduzione italiana (Idrovolante, pagg. 191, euro 20), dove mette insieme i temi che caratterizzeranno gli ultimi mesi di vita e si avventura in una rivolta integrale verso il «culturalismo», contrassegno lessicale con cui marchia a fuoco la nascente società di massa: «L'idea di una cultura universale, o di una cultura del genere umano, è già di per sé assai discutibile per la sua astrattezza. Nel caso del Giappone, poi, un Paese con una specificità, una storia, una posizione geografica, un ambiente naturale tutti suoi, la comprensione delle peculiarità nazionali della sua cultura riveste una importanza particolare». Concetto a cui contrappone quello di «miyabi», elemento centrale dell'estetica classica giapponese, «essenza della cultura di corte e del desiderio del popolo di afferrarne i contorni». Per ritrovare il legame con la qualità estetica e non arrendersi al «culturalismo», i giapponesi avrebbero dovuto infatti porsi questo scopo: proteggere l'Imperatore, non solo fisicamente ma come simbolo e, perciò, adottarne virtù e stilemi.

Mishima tenterà fino all'ultimo di invocare un improbabile ritorno alla tradizione e all'antico Giappone, per esempio recuperando il teatro No («noi siamo coloro che incarnano la tradizione di bellezza del Giappone»), fino a che riconoscerà quale necessaria e unica sublimazione del fronte anti-nichilistico l'estetica della morte. Perché la modernizzazione non corrodeva solo il quotidiano dei suoi connazionali ma rischiava di intaccare la sua fibra potente, alimentando malessere crescente nell'artista e nell'uomo. E ad imprimere maggiore sofferenza fu forse il fatto che egli stesso si espose al pericolo di essere coinvolto in quel turbinio di cambiamenti. Era un avido lettore di autori occidentali: Gide, Cocteau, Novalis, Henry Miller, Fitzgerald, Truman Capote e Hemingway. Fumava sigari cubani e non disdegnava abiti italiani di gran classe, come ci ricorda Daniele Dell'Orco nella introduzione al volume. E quando costruì la sua sfarzosa abitazione nel 1958 confidò al suo architetto «di volersi sedere su una sedia in stile rococò vestito in jeans e camicia hawaiana. Il risultato del suo progetto architettonico fu un mélange di statue greche e mobili d'epoca francesi degni di un set cinematografico, tra lo sconcerto di molti giapponesi che ricevettero inviti ai suoi cocktail party su cartoline marchiate Tiffany».

Ma oramai voleva rimanere aggrovigliato nella sua dimensione di combattente politico che fa appello alle coscienze e si fa immortalare in pose scultoree, quasi ad esasperare una carnalità mai repressa. Non era più concepibile nessuna fluttuazione. Voleva ultimare la traversata dalla «via della penna» alla «via della spada» e riconnettersi ai valori guerrieri dell'Hagakure e agli aspetti più ancestrali della sua comunità. Arrivato a quel punto, letteratura e battaglia politica dovevano avanzare su uno stesso sentiero per non farsi inghiottire dallo spirito dei tempi e per essere pronte al rendez-vous con la morte... degna conclusione di un itinerario che non potava essere sublimato in altro modo.

Quando fonda la Società dello scudo, esercito privato che ha come missione la salvaguardia dell'Imperatore, siamo all'atto finale: il seppuku.

Ma, anche lì, grazie alla partecipazione dei media, il suicidio rituale col taglio dell'addome, il 25 novembre del 1970, si concretizzerà in un contesto del tutto inedito e, perciò, sempre in quel perenne e incestuoso connubio tra antico e moderno di cui fu fiero nemico ma che continua a contrassegnare il Giappone.

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