Qual è il confine tra eugenetica e cura? Qual è il limite oltre il quale l’ingegneria genetica diventa un’operazionedi trasformazione radicale della natura umana? La risposta agli interrogativi è decisiva per capire il destino del genere umano, ed è una risposta che appartiene alla nostra cultura, alla nostra dimensione religiosa, alla nostra sensibilità. Il problema è che sarebbero necessari confini certi tra un’ingegneria genetica che opera in funzione del bene della persona e una invece che interviene per modificare la struttura naturale dell’essere umano per finalità non strettamente legate alla salvezza della persona stessa. Può apparire paradossale, ma le differenze tra cura e eugenetica più che la scienza è il nostro sentimento della vita a comprenderle e decifrarle.
Nel caso particolare giunto alla cronaca, si capisce qualcosa immediatamente.
L’intervento ha salvato una vita; dunque, il mio sentimento della vita non può che essere dalla parte dei medici intervenuti per cercare di raggiungere l’obiettivo specifico della ricerca scientifico-medica: alleviare le sofferenze, curare, garantire la vita.
Comprendo i rischi di questa riflessione che ci riporta al problema iniziale, quello cioè del confine tra eugenetica e cura, il cui superamento apre la strada ad interventi che modificano la specie, che possono avere esiti terribili di tipo razzista. Di tutto ciò ha scritto un filosofo tedesco, Jürgen Habermas, che in modo non approssimativo è inseribile in una cultura di orientamento di sinistra. Sottolineo questo aspetto, perché uno dei motivi non secondari sulla questione generale dell’ingegneria genetica vede la sinistra porsi in una prospettiva aperta al progresso, allo sviluppo delle bioingegnerie, mentre la destra appare più attenta ai rischi delle bioingegnerie e quindi più propensa a mettere il piede sul freno delle ricerche.
Il filosofo Habermas dimostra la stupidità, l’ignoranza di questa distinzione basata sulle vecchie categorie ottocentesche di destra e sinistra, che possiamo anche usare per orientarci nelle scelte politiche, ma che è assolutamente disorientate per ciò che riguarda un problema tanto delicato come quello legato alle ricerche sulla genetica.
Certo, osservavo quanto sia fondamentale la nostra cultura per orientarci all’interno di questo meraviglioso e terrificante labirinto della ricerca scientifica. E nella cultura è impensabile che non rientri anche la nostra visione politica: tuttavia, è proprio la grande novità della medicina genetica che ci chiede di superare gli anacronistici steccati di destra e sinistra.
Credo sia doveroso ascoltare gli scienziati che allargano le nostre conoscenze, ma ritengo sia altrettanto doveroso che la società trovi una misura, un criterio oltre i quali non sia più accettabile l’intervento genetico. Allo stesso tempo, però, non deve essere pregiudizialmente chiusa la possibilità di cura e di salvezza del paziente, in nome di un’astratta intangibilità della vita umana.
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