Cronache

Si può perdonare un genitore che ti abbandona? Ecco qual è l'ultima sfida di Steve Jobs

Il padre naturale del genio della Apple che lo aveva abbandonato gli lancia un appello: "Incontriamoci prima che sia tardi. Se potessi tornare indietro non sarei così egoista". Ma è difficile mettere da parte cinqunat'anni di orgoglio e dolore. 

Si può perdonare un genitore che ti abbandona?
 
Ecco qual è l'ultima sfida di Steve Jobs

Può un padre tornare a chiedere di un figlio 56 anni dopo? John Jandali oggi ha 80 anni e vorrebbe tanto rincontrare suo figlio. «Prima che sia troppo tardi». Ma fino ad ora è rimasto nell’ombra, mai una telefonata, una lettera. Niente. Poi Jandali ha visto le foto di questo figlio dimenticato che oggi appare così malato e ha avuto paura. Suo figlio è Steve Jobs, geniale e ricchissimo fondatore di Apple, quello che ha inventato l’iPhone, l’iPod, l’iPad e che, a 56 anni, si sta spegnendo per un tumore. John, padre pentito e spaventato, cerca di infilarsi almeno per i titoli di coda. Sta a Steve l’ultima decisione, la sfida più difficile: il grande manager e il suo passato che torna come un fantasma, un incubo.

«Vivo nella speranza che prima che sia troppo tardi mi cercherà - dice Jandali -. Anche solo per bere un caffè, farebbe di me un uomo molto felice». Il padre naturale di Jobs è di origini siriane, ha scoperto solo cinque anni fa che suo figlio era uno degli uomini più ricchi del mondo, ha raccontato che non ha potuto impedire l’adozione perché il padre della compagna, Joanne Schieble, una studentessa universitaria, non voleva che si sposassero e lei se ne andò a partorire a San Francisco senza dirgli nulla. Il padre poi morì e loro si sposarono ed ebbero Mona. Ma il matrimonio non durò e oggi John vive in Nevada con la terza moglie. Oggi John si contorce nel rimorso per avere mancato la paternità con quel figlio così geniale e così famoso. «Vorrei non essere stato l’uomo egoista che sono stato e prego perché non sia troppo tardi per dire a Steve cosa provo».

Era giugno 2005 quando Steve Jobs aveva appena commosso centinaia di studenti dell’Università di Stanford. Lui era stato invitato come ospite d’onore, doveva parlare del futuro e per farlo scelse di raccontare il suo passato di bambino abbandonato. «Nella mia vita ho mollato tutto. È una storia che è iniziata prima che nascessi». Jobs raccontò di quella mamma studentessa caparbia e decisa, e di quella clausola posta per l’adozione: «solo a laureati», lei che voleva che il suo bambino crescesse tra gente che capisse l’importanza dell’istruzione. «Mi aveva scelto una coppia di avvocati, ma quando videro che ero un maschio venni rifiutato. Con la seconda coppia andò meglio, ma non era laureata. Anzi, mio padre non aveva neppure finito il liceo. Mia madre firmò i documenti per l’adozione solo quando si mise per iscritto che mi avrebbero mandato all’università». Il discorso del 2005 è diventato famoso, una specie di testamento del fondatore di Apple.

«Siate affamati, siate folli. Guardate sempre avanti, dovete avere pazienza e non arrendervi», incitava lui da quel palchetto. I ragazzi erano lì a guardarlo con occhi spalancati pieni di ammirazione. «Credete sempre in qualcosa e alla fine guardandovi indietro scoprirete che la vita è fatta di puntini che si sono uniti». Ma John Jandali non è mai rientrato nella costellazione di Steve. Un bambino abbandonato è diverso dagli altri, e il rifiuto se lo porta addosso per tutta la vita. È così che il caos diventa destino, una fede da dimostrare agli altri che diventa successo sfacciato e geniale da sbattere in faccia anche a quel Jandali che non ti ha mai cercato, neppure quando avevi assoldato un investigatore per ritrovarlo.
Oggi probabilmente quella voglia di ricucire è passata. Forse è davvero tardi. C’è la malattia, i giorni da spendere con chi ti è stato vicino. «Se potessi tornare indietro cambierei molte cose», assicura Jandali.

«E a maggior ragione negli ultimi anni dopo che ho saputo che mio figlio è malato. Può suonare strano, ma non sono preparato, ad alzare la cornetta e telefonargli». E invece strano non sembra a nessuno, visto che per cinquant’anni non ha sentito il bisogno di farlo. Jandali vorrebbe che fosse Steve a fare il primo passo perché il suo «orgoglio siriano» è più forte, perché non si sospetti che lo fa per interesse. «Ho i miei soldi, sono vice direttore di un casinò a Reno, in Nevada. Ciò che non ho è mio figlio».

Ma forse, ormai, indietro non si torna più.

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