Si salva dal suicidio, la madre lo uccide

Il figlio si era lanciato nel vuoto ed era in ospedale e con una gamba amputata. La donna lo ha colpito con due coltellate: «Non volevo che soffrisse ancora»

Alessia Marani

da Roma

Il coltello era andata a comprarlo due giorni prima. Di vedere quel figlio, steso sul letto del reparto di Rianimazione, sofferente e con la gamba amputata, non ne poteva più. Così, ieri pomeriggio, Luciana Sillasi, 74 anni, intorno alle cinque, è entrata nella stanza in cui era ricoverato - all’ospedale «San Camillo» di Roma - ha tirato fuori dalla borsetta la lama appuntita e l’ha più volte infilzata con violenza e disperazione prima sul torace e poi nel collo dell’uomo, cinquant’anni, dipendente di una ditta farmaceutica. A nulla è valso il tentativo dei medici di strapparlo per la seconda volta alla morte: trasferito subito in sala operatoria, per il poveretto non c’è stato scampo.
Carmine Verticchio, questo il suo nome, da tempo malato e con una forte depressione, sposato e padre di due ragazzi di 14 e 18 anni, la mattina dello scorso otto marzo aveva tentato il suicidio, volando giù dal balcone del terzo piano della loro casa di via Bravetta, a Ovest della Capitale. In preda a un raptus, approfittando che i familiari fossero assenti, aveva preso la rincorsa, aveva infranto la porta finestra della sala da pranzo e si era lanciato nel vuoto. Eppure a terra, nel cortile condominiale, era ancora cosciente, la gamba destra spezzata sotto il ginocchio per la caduta, accanto subito dopo, la madre, Luciana Sillasi, 74 anni. «Sono distrutta, non ce la faccio più» aveva detto ai primi soccorritori, gli equipaggi di un’ambulanza semplice e di un centro mobile di rianimazione del vicino ospedale di Monteverde. E «povero figlio mio, povero figlio mio», continuva a gridare l’anziana ieri pomeriggio come un’ossessa mentre la polizia la faceva salire su una volante per portarla nella Questura centrale di via Genova. A bloccarla mentre ancora fissava il corpo straziato di quel figlio col coltello ancora conficcato nella gola, è stato un vigilante richiamato dalle urla di un infermiere. «Gli hanno fatto del male, gli hanno fatto del male», ripeteva la donna senza specificare a chi si riferisse. Agli investigatori della sezione Omicidi della squadra mobile capitolina, in un primo colloquio, Luciana, in forte stato di choc, ha spiegato i «motivi di madre» che l’avrebbero indotta a un gesto così drammatico ed estremo. «Non volevo che soffrisse oltre, la vita era stata già tanto crudele con lui», ha detto agli inquirenti. Luciana ieri aveva indossato il camice e il soprascarpe che i medici obbligano di portare ai parenti e amici dei pazienti ospitati nei dieci letti di Rianimazione del San Camillo, uno dei maggiori centri ospedalieri della città. «La signora - spiega il dottor Giuseppe Nardi, responsabile della Divisione - era già stata qui altre volte e non aveva mostrato alcun segno d’instabilità. Non v’era ragione per cui potessimo temere un fatto così orribile».

Alla donna è stato contestato il reato di omicidio volontario. Ora è nella struttura sanitaria interna al carcere di Rebibbia, controllata a vista perchè non commetta un’ulteriore pazzia. Già oggi potrebbe essere ascoltata dai giudici.

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