Roma - Passate le cinque del pomeriggio, in Transatlantico la sintesi della giornata la fanno due siciliani che sono politicamente quanto di più lontano si possa immaginare. Da una parte Lomaglio, nisseno della Cosa rossa, e dall’altra Giudice, agrigentino di Forza Italia. Con il primo che chiosa: «Fuiri è vriogna, ma è salvamento di vita». Come a dire, sarà pur vero che sul decreto sicurezza il governo se l’è data a gambe, ma di alternative non ce n’erano.
E già, perché andando ben oltre il più imprevedibile dei paradossi, dopo lo scontro all’arma bianca di due settimane fa in Senato, quando il decreto sulle espulsioni dei cittadini neocomunitari passò per un voto (e con il «sì» decisivo di Cossiga), alla Camera ci si trova in una vera e propria situazione di impasse, visto che l’emendamento anti-omofobia voluto dai ministri Ferrero e Pollastrini per accontentare la comunità omosessuale e la sinistra radicale (lo stesso che ha portato la teodem Binetti a votare contro) contiene un errore giuridico insanabile. Al punto che il Quirinale non ha avuto esitazioni a far capire che il capo dello Stato non lo avrebbe controfirmato a meno che non fosse stato modificato.
Così, prigioniero tra la sinistra radicale (che mai avrebbe accettato la cancellazione della norma anti-omofobia) e i teodem (sul piede di guerra), il governo decide di non decidere per evitare che una modifica del decreto alla Camera imponga un nuovo voto al Senato (dove questa volta la Binetti sarebbe stata seguita dagli altri due teodem). Per dirla con le parole di Casini, «un pasticcio». Per capirci: in caso di modifica della norma incriminata nella direzione voluta dalla sinistra radicale sarebbero insorti i teodem, in caso di azzeramento della norma anti-omofobia si sarebbero opposti Prc, Pdci e Verdi, mentre lasciando tutto così com’è il decreto sarebbe andato incontro alla bocciatura del Quirinale (già data per scontata da Mastella poco dopo l’ora di pranzo: il capo dello Stato «non lo firmerà e decadrà»). E dunque? E dunque si è scelto di lasciar decadere il decreto (decisione che sarà ufficializzata solo questa mattina dal ministro Chiti durante la capigruppo della Camera). Ma non tanto, come dice Palazzo Chigi, perché non ci sarebbe il tempo per un terzo passaggio parlamentare al Senato, quanto per le ragioni di cui sopra: Palazzo Madama non avrebbe retto un’altra votazione sul filo di lana come quella dello scorso 6 dicembre.
Una scelta, fa presente il leghista Cota, che politicamente «sconfessa la leadership di Veltroni». Visto che fu proprio lui, all’indomani dell’omicidio di Roma della signora Reggiani ad opera di un romeno, a chiedere con forza il decreto. Non a caso, il segretario del Pd chiede al governo di adottare un provvedimento analogo.
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