Sidney Lumet: "Non mi piacciono i film troppo politici"

Al regista il Premio Fellini: "Privilegio l’umanità dei personaggi. Clooney e Damon? Attori coraggiosi". E' al lavoro sul thriller Getting out: "Il cinema può influenzare i giovani. Ma è una passione effimera"

Sidney Lumet: "Non mi piacciono i film troppo politici"

Rimini - Non si sono mai incontrati. Eppure, tra tutti i grandi registi che in questi anni sono stati invitati dalla Fondazione Fellini per ricevere il premio dedicato al maestro de La dolce vita - citiamo Scorsese e Polanski - Sidney Lumet è quello che sembra conoscerlo meglio. Classe 1924, ebreo di Philadelphia che ha immortalato New York come nessun altro, è a Rimini con la quarta moglie - nel novero ci fu anche l'ereditiera Gloria Vanderbilt - e una vitalità seducente e sorniona, che rivela il suo passato di attore, oltre che il genio e l’impegno di «ribelle per una causa» che gli ha fatto girare capolavori come La parola ai giurati (1957), La collina del disonore (1965), Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), Quinto potere (1976), fino all’ultimo Onora il padre e la madre (2007). Snocciola i film di Fellini come se li avesse rivisti il giorno prima: «I love Amarcord. Una volta avrei detto Otto e mezzo, ma invecchio e si allontana, non è più quel gigante che fu quando uscì. Adoro Satyricon e Roma». Ne commenta le inquadrature, le inserisce nell’Olimpo del cinema: «L’ultima ripresa de La nave va è un punto mai raggiunto da nessun’altra cinematografia al mondo. I miei film sono così pesanti. Lui invece arrivava molto più in profondità saltellando sulla spiaggia».

Da Henry Fonda, Marlon Brando, Katharine Hepburn fino a Ethan Hawke, Lumet - oggi a Bologna alla Hopkins University per una lezione sul cinema - ha diretto tutta Hollywood, facendo anche la fortuna del «courtroom drama», il film processuale. Ma era quasi sempre buona la prima: Paul Newman lo chiamava Speedy Gonzales, «È l’unico uomo che conosco che parcheggerebbe in doppia fila davanti a un bordello». Look da ricco pensionato americano, scarpe da corsa, jeans e maglione, a Rimini ha scartato le domande sulla politica italiana, lamentando incompetenza: «Da anni nessun regista americano vede film italiani. Non ci sono più sale che possano mantenersi proiettandoli». Fonti attendibili lo danno al lavoro su Getting out, thriller psicologico su un galeotto dalla personalità scissa tra il suo psichiatra e la donna che ama, ispirato a una pièce teatrale di Marsha Norman. Un ritorno alle origini, visto che Lumet non ha mai abbandonato, quantomeno nei metodi, il suo grande amore: il teatro. «Sarà per questo che per me chi scrive il testo è sacro, a differenza degli altri registi di Hollywood».

Sul set che rapporto crea con gli attori?
«Una libertà vigilata. Si può improvvisare un intero film, se si vuole. Ma è come passare la giornata a Time Square per vedere se accade un incidente».

In Pelle di serpente diresse Anna Magnani. Come la ricorda?
«Fu un film molto difficile. Anna lo ha sempre negato ma per lei recitare in inglese fu molto difficile. Doveva superare lo scoglio della lingua per far emergere i propri sentimenti. Ebbe vita dura, non andò d’accordo con Brando sul set. Ma era una donna forte. E alla fine quel che conta è quel che appare sullo schermo».

Lei ne parlò con «Quinto potere», Fellini con Ginger e Fred: oggi la tv ha ancora un ruolo come quello?
«Ancora di più. La cosa terrificante della tv è che la guardi da solo. E più la guardi più la solitudine aumenta. E la solitudine è il grande problema della contemporaneità».

Con Obama i problemi dell'America si sono azzerati?
«Con la politica non bisogna mai avere troppa speranza. Ogni cosa è contro Obama, compreso il suo stesso partito. Sarà capace di resistere alle forze che lo contrastano? Troppo presto per dirlo».

Che rapporto c'è tra la piacevolezza di un film e la sua correttezza politica?
«Per me il linguaggio è fondamentale. Ma ciò che mi entusiasma in un film non è fare una dichiarazione politica. Preferisco farla emergere dall’umanità dei personaggi. Come accade nella vita reale».

Ora negli States il cinema politico è scomparso, è quasi solo fantasy. Lei che ne pensa?
«Non è vero. Ci sono molti attori americani coraggiosi: George Clooney, Matt Damon. Fanno film di cassetta per permettersi poi di recitare o girare ottimi film politici».

Come si riesce a metter d’accordo i costi di un film con i contenuti?
«Quasi impossibile. Anche se ogni tanto qualche produttore illuminato c’è. Basta mettere sempre nel contratto il final cut. L’ultima parola spetta al regista».

In che modo un film può influenzare la formazione di un giovane?
«Un film può essere estremamente potente sui giovani. Ma quell’influsso dura un giorno. Poi muore, come tutte le passioni effimere».

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