IL SILENZIO DEGLI INDECENTI

Sull’aborto c’è poco da aggiungere. Personalmente, condivido alla virgola gli articoli del nostro direttore Mario Giordano e del nostro vicedirettore Michele Brambilla che hanno raccontato come il feto sia vita dal primo giorno del concepimento. Non c’è nemmeno bisogno di essere direttore o vicedirettore: basta aver assistito una volta nella vita a un’ecografia - una delle gioie più belle che dà senso al nostro stare nel mondo - per rendersi conto che quel puntino che pulsa come un omino dei videogiochi, è vita, nient’altro che vita. Senza possibilità di distinguo, prese di distanza, sfumature. Vita, punto. E sopprimere quel puntino che pulsa è come perdere la partita a videogiochi. Solo che un bimbo che muore è peggio che far fuori uno dei protagonisti di Space invaders.
Detto questo e chiamato omicidio l’omicidio, è innegabile che l’aborto non è stato inventato dalla legge 194. Poi, magari, la legge non piace e si può pensare che vada abolita tout court. Ma non è vero che senza legge non si abortiva. Il problema è un altro, è nella violazione continua di una norma che all’articolo 1 recita: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonchè altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».
Parole chiarissime, ulteriormente arricchite dall’articolo 2 della 194, quello che prescrive i doveri dei consultori, soprattutto nel punto in cui dice che devono «contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza». E, ancora, all’articolo 5 della legge si spiega che «il consultorio e la struttura socio-sanitaria hanno il compito in ogni caso di esaminare con la donna (e eventualmente anche con il padre), le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione di gravidanza...».
Parole chiarissime, che però sono l’esempio classico di quelle che i professori di diritto all’università definivano «legge manifesto». Belle parole, ma impossibili da realizzare. Norme destinate a rimanere sulla carta, come ha dimostrato benissimo la straordinaria inchiesta della nostra Stefania Antonetti che abbiamo pubblicato ieri sulle pagine nazionali del nostro Giornale.
Su cinque consultori e ospedali testati a Genova, in cinque casi la legge non è stata rispettata. O, meglio, non è stata rispettata nel punto in cui prevede che i consultori debbano essere una barriera alle interruzioni volontarie di gravidanza e non un ufficio ratifica dell’aborto.
Quell’inchiesta, quei cinque casi genovesi, quei cinque videogames delle ecografie e di vita bruscamente interrotti, valgono una battaglia. Una battaglia vera, come quella che stanno portando avanti gli instancabili amici dei vari centri di aiuto alla vita, da Gianrenato De Gaetani a Ginetta Perrone, passando naturalmente per Eraldo Ciangherotti, quasi un uomo-sandwich del diritto alla vita. Eroi, dal mio punto di vista.


Comunque la si pensi sulla 194, la battaglia (difficilissima, visto il vergognoso silenzio politico bipartisan di ieri sull’inchiesta del Giornale), ora è quella per chiedere l’applicazione integrale della legge. Di tutta la legge. Non solo della parte che fa comodo.

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