Dopo Silvio, sarà sfida tra Maroni e Tremonti

C’è una rivalità sotterranea che fa da sfondo al già complicato risiko politico della Lega Nord, inquieto alleato di governo. Nel Carroccio c'è chi guarda al ministro dell'interno come al futuro successore del Cavaliere a palazzo Chigi. Ma Tremonti...

Dopo Silvio, sarà sfida tra Maroni e Tremonti

Roma - Il divo Giulio contro il colonnello Roberto. C’è una rivalità sotterranea che fa da sfondo al già complicato risiko politico della Lega Nord, inquieto alleato di governo. Si guarda in là, non all'immediato, a futuri assetti di governo, ma sono riflessioni che impattano anche sul difficile momento che la coalizione Pdl-Lega sta attraversando. Da una parte c’è la fibrillazione leghista per il tumulto attorno alla figura del premier, con una parte della Lega più fedele al Cavaliere e un’altra che scalpita per una rapida exit strategy (magari guardando anche a sinistra). Poi c’è una proiezione per un piano B, un premier diverso da quello attuale, che non ha una collocazione temporale precisa ma che è allo studio. E qui i nomi sono due: Tremonti e Maroni. Perciò le aree che si riconoscono nei due superministri sono attive in una sorta di campagna elettorale preventiva e semiclandestina per spingere il proprio cavallo e azzoppare l’altro. «Tremonti è un bravissimo ministro ma non è credibile come candidato premier - dice un leghista «maronita» (nel senso di Maroni) di antica fede - È antipatico, non piace alla gente, in tv non buca il video, mentre Maroni è un gaudente, è simpatico e come ministro dell’Interno ha conquistato un prestigio personale indiscutibile e trasversale».
Dall’altra parte, in zona Tremonti, si fanno ragionamenti opposti in chiave anti-Maroni. Che non sarebbe un premier possibile in quanto leghista, e quindi «sgradito» alla parte meridionale del Pdl e poi esponente di un partito che, tra Lega e Pdl, ha meno voti, e che quindi è innaturale come candidato premier. Si tirano anche colpi bassi, facendo girare malignità per cui mentre l’alleato Maroni sta a capo del Viminale, il quartier generale di Berlusconi verrebbe a sapere delle mosse degli investigatori e delle forze dell’ordine sul caso Ruby solo a cose fatte, senza informazioni preventive (che sarebbero utili per organizzare la difesa). Insomma si sospetta Maroni di intelligenza col nemico, facendo strisciare questi dubbi anche rispetto al delicato fronte delle indagini giudiziarie. Lo si indica anche, da parte Pdl, come l’interlocutore leghista di Pd e Udc, che si offrono come partner di un governo Maroni appoggiato anche da loro, purché spazzi via Berlusconi. Anche se non è Roberto Maroni, in realtà, a cercare loro, ma viceversa.
In ambienti Pdl si riporta anche una frase che Berlusconi avrebbe detto a Tremonti: «Stai attento che Maroni va in giro a parlare male di te». Vera o falsa che sia la voce dà l’idea del clima che si respira in quelle stanze. Una parte del Pdl sospetta manovre di Tremonti per approdare a Palazzo Chigi (ma quelli pro-Tremonti ricordano: «Nel 2004, quando lasciò il governo, sai quante offerte ha avuto dall’altra parte? Ma lui non trama proprio niente alle spalle di Berlusconi, non ha correnti nel Pdl, sta nel suo ufficio a lavorare...»). Un’altra parte invece sospetta di Maroni. E la Lega? É divisa al suo interno. Al momento Umberto Bossi è tra i lealisti del Cavaliere, e finché ci rimane lui la Lega non si muove. Poi c’è una parte (con solide basi nei poteri leghisti a Roma) più insofferente, che vede il voto come unica e migliore via d’uscita. Maroni è più in questa seconda area che nella prima, anche se si muove con molta prudenza (di fatto sta a guardare e lascia agire gli altri colonnelli, in primis Calderoli) perché sa di essere al centro dell’attenzione.
La domanda che tutti si fanno è cosa farà la Lega, se e quando staccherà la famosa spina. «Si gioca tutto nei prossimi venti giorni» dice una fonte parlamentare della Lega, «perché se bisogna votare prima del 2013 l’unica finestra ragionevole è maggio, con le amministrative. Sennò tanto vale arrivare alla scadenza naturale». Se i numeri che Berlusconi ha promesso alla Lega per rimpolpare le commissioni ci saranno, il federalismo fiscale andrà avanti senza grandi ostacoli, e la Lega non avrebbe motivi per mettercene di suoi. A quel punto si andrebbe fino al 2013, «perché una volta fatto il federalismo fiscale bisogna anche gestirlo, controllare che le Regioni “sprecone” lo applichino davvero, e senza la Lega al governo questa certezza non ce la dà nessuno» spiegano i leghisti.
Dunque o si fa saltare il tavolo adesso, entro fine marzo, o si va fino in fondo. Le sirene del Pd squillano, e la Lega non si tappa certo le orecchie (in fondo, ricordano tra il serio e la battuta nel Carroccio, «sia Bossi che Maroni erano comunisti da ragazzi...»).

Ma un’alleanza con il Pd è molto remota, date le posizioni opposte su un tema chiave leghista come l’immigrazione. Si resta col Pdl. E con Berlusconi premier. Finché Berlusconi stesso, insieme a Bossi, non cambieranno idea.

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