Controcultura

Simon Reynolds racconta i suoni del "futuro perduto"

L'autore di "Retromania" prova a spiegare perché gli artisti hanno paura della rivoluzione

Simon Reynolds racconta i suoni del "futuro perduto"

Un fiume in piena. Di dati, titoli, notizie, tracce e anche di quella componente emotiva fondamentale quando si fa critica musicale. Già, perché restituire attraverso le parole analoghe suggestioni del linguaggio più immateriale e aniconico non è per niente semplice. Chi appunto segue i critici di questo settore sviluppa un rapporto di fiducia: è competente, preparato, ha i miei stessi gusti, attraverso di lui ho scoperto meraviglie sonore.

Riferimento primo del giornalismo musicale britannico, Simon Reynolds è molto conosciuto anche in Italia perché diversi suoi scritti sono stati tradotti. Già nel 2000 Arcana pubblicò Generazione ballo/sballo, rendendosi conto di quanto il titolo fosse imbarazzante e giustamente lo riportò all'originale Energy Flash, ovvero quanto le droghe artificiali degli anni '90 avessero influenzato la scena rave. Escono poi Retromania e Post-Punk per Isbn, fortunatamente ripresi da minimum fax che ha aggiunto in catalogo altri due titoli, Polvere di stelle. Il glam rock dalle origini ai giorni nostri (2017) e il recente Futuromania. Sogni elettronici da Moroder ai Migos. Classe 1963, londinese da tempo trasferitosi a New York, Reynolds ha scritto su tutte le riviste e i giornali che contano: Melody Maker, New York Times, The Wire, Mojo, Uncut, Artforum e ora sul portale Pitchfork. Di musica e non solo: Reynolds appartiene a quella categoria di saggisti per i quali è indispensabile ricorrere al meticciato linguistico, ponendo diversi ambiti in continua relazione, ove si incrociano il taglio filosofico e quello sociologico, l'alto e il basso, la fenomenologia e la storia: una genia nata con Lester Bangs, proseguita con David Toop, Greil Marcus e Jon Savage, giunta fino a Mark Fisher, scomparso pochi anni fa.

Tra le sue intuizioni, Reynolds ha ripreso il termine «hauntology» coniato da Jacques Derrida come sintesi tra fantasma/ossessione e ontologia presente nelle forme artistiche di oggi in una sorta di retroestetica, come incapacità di sfuggire alle vecchie forme sociali, insomma la «nostalgia per il futuro perduto» che corre in quest'ultima ricca raccolta di articoli compresa tra inizio anni '90 e oggi. Perché c'era un tempo in cui futuro significava guardare avanti e invece ora, assediati da minacce e incertezze, ci rifugiamo sempre più spesso in un'idea di futuro che è pienamente passato. Anche nella musica.

Suonare elettronica, fin dagli anni '70, ha significato sostituire progressivamente la macchina all'uomo - la Donna Summer inventata da Giorgio Moroder, i Kraftwerk e i loro robot - e cambiare il rito del concerto rock, con la star sul palco modello di piena identificazione, in uno spazio liquido dove il pubblico è primo protagonista e il musicista non ha più volto né identità, come i francesi Daft Punk o Burial, che non ha mai rivelato chi è veramente come Banksy e anche per questo è stato mitizzato. Certamente l'elettronica, in ogni sua possibile variante, dalla dance all'ambient, dal dubstep al minimalismo, rappresenta (ancora, nonostante l'impatto odierno sia minore rispetto agli anni d'oro, i '90) la branchia più sperimentale della musica e perciò continua ad apparentarsi all'avanguardia. Tanto il rock è conservatore - e infatti mi piace, poi nel 2020 Bob Dylan e Paul McCartney tirano fuori due dischi da paura e allora tutti zitti - tanto l'elettronica è futuribile e progressista, avendo capito peraltro che l'unica ricetta alla sopravvivenza consiste nel mescolarsi sempre ad altro. Se i suoni dei '90 sapevano di Giamaica, quelli del 2020 hanno l'odore di Afro Beat e della scienza Nu Jazz londinese che in apparenza sembra entrarci poco e invece l'orecchio attento scoprirà presto l'universo contaminato, che prende un linguaggio retro e lo veste di nuovo. Il punto d'arrivo nella narrazione di Reynold è peraltro rappresentato dai Migos, l'incrocio tra elettronica, hip hop e rap.

Il neologismo «Futuromania» segna il bisogno di fare storia e quindi Reynolds dedica parecchio spazio a quelli che considera i capitoli fondanti. I più anziani di noi ricorderanno la moda dei sintetizzatori, ovvero il filone di musica sintetica degli anni '70 - Tangerine Dream, Vangelis, Walter Carlos, Jean-Michel Jarre - pressoché ignorato oggi, indubbiamente noioso. Brian Eno ha inventato l'ambient, staccandosi spesso e volentieri dalla sua creatura quando incontrò il genio di David Byrne. In testa agli anni '90 pone la scena rave e l'hardcore, citando autori, generi, etichette che fa effetto riascoltare perché l'elettronica è davvero figlia dei tempi e spesso non riesce a scavallarli: Goldie, Boards of Canada (vent'anni dopo considera Music Has the Right to Children il capolavoro del decennio), il drum'n'bass, step garage, gabber, la Warp ecc... Rispetto ad altri critici, non ama Aphex Twin trovandolo convenzionale.

Rispetto al punto in cui eravamo partiti la nostra nuova chance di futuro sta dentro il pc e negli smartphone. Tutta la musica che Reynolds cita possiamo tranquillamente ascoltarla o riascoltarla senza lo sbattimento di andare a cercare vinili o cd. Camuffato da presente (eterno presente) ci salva l'idea dell'archivio, la memoria elettronica che non conosce limiti e include tutto, almeno fino a quando non giungerà il deserto digitale e qualcosa sarà destinato a scomparire.

Oltre tutto siamo chiusi in casa, l'elettronica funziona anche come surrogato da salotto visto che ci hanno tolto il ballo e lo sballo.

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