Il sindaco Bandiera, vessillo della politica maneggiona

Arrogante, inossidabile ai cambi di regime, avido. In un racconto, inedito dal ’56, lo scrittore descrive il prototipo del capataz di partito

Leonardo Sciascia

Per tutto un anno venne a scuola con un pantalone di velluto verde a coste (allora non era di moda il verde né il velluto), la giacca turchina, un maglione rosso a greche nere; e si ebbe il soprannome di Bandiera, ché alla distanza di un miglio, e sempre agitato e saltellante com’era, dove c’era lui pareva ci fosse la sbandierata. A scuola, quando c’era da fare il tema, implorava che io gli dettassi il principio e la conclusione «mi basta l’avvio» diceva «e poi quattro belle parole per concludere». E poiché glielo dettavo intero, si rifaceva all’adunata del sabato, era cadetto e gli davano da comandare la nostra squadra, ci faceva marciare nel cortile e ogni tanto mi chiamava per nome con voce vibrante di collera e aggiungeva «il passo sbagli, cambialo, hai proprio la testa dura». Sapeva incazzarsi in un modo, alle adunate, che poi a scuola gli dicevo «se vinciamo la guerra, perlomeno federale diventi» lo dicevo con convinzione, e anche lui ci credeva: socchiudeva gli occhi e come dall’alto mi guardava. Era sempre primo nelle manifestazioni; e tra il colore del vestito e quello della bandiera che sempre riusciva ad agguantare, pareva il campionario del super-iride.
Mi ero scordato di lui, da circa quindici anni non lo vedevo né senza quel vestito l’avrei riconosciuto, quando un compagno di scuola, incontrandomi a Palermo, mi dice «sono qui con Bandiera, è diventato un pezzo grosso, si sta occupando del trasferimento di mia moglie».
«E che fa?» domando.
Dice: «È segretario del partito, al suo paese, sindaco e presidente di una cooperativa agricola; ha fatto un buon matrimonio ed è ricco; i grossi del suo partito gli tengono stima».
«Vorrei rivederlo» dico.
«È facile,» dice «andremo a pranzo al Castelnuovo, all’una ci vediamo: l’occasione è buona, potresti avere bisogno...».
All’una andai al Castelnuovo. Non c’erano: cominciai a leggere il giornale. Ad un certo punto sentii «carissimo» abbassai il foglio e mi trovai di fronte un uomo elegante, gli occhiali montati in oro, i capelli grigi sulle tempie. Fu come se avessi girato un caleidoscopio, e tutta una girandola di colori di colpo si fosse ristretta in un disegno più piccolo: tutti quei colori che quindici anni prima vestivano il suo corpo si erano coagulati nella cravatta, il rosso, il verde, il nero e il turchino, restai a guardarla affascinato mentre ci stringevamo la mano.
«Sai che ti trovo bene?» disse. «Sempre lo stesso sei, io invece...».
«Stai bene anche tu,» dissi «sei un po’ cambiato ma stai bene. Ho saputo che ti dai da fare con la politica».
«Oh» disse «manco a parlarne: lavoro sacrifici mai un momento di pace. E che ne cavi poi? Io ti invidio, sai: tu fai le tue orette di scuola, scrivi il tuo articoletto, hai le vacanze... Vedessi quello che c’è a casa mia: proprio la casa del sindaco, come si suol dire: un momento di riposo non te lo danno».
«Ma ci sono le soddisfazioni» io dissi.
«In quanto a questo» disse «non posso negare; in paese mi rispettano tutti e mi temono; la prefettura è come fosse casa mia; il partito poi, mi portano in palma di mano nel partito. Non ti dico poi le amicizie: io e il ministro... siamo così (congiunse l’indice della destra a quello della sinistra), quando vado a Roma mi fa una festa, si offende se vado in albergo, mi vuole a casa. E non è lui solo, tutti mi vogliono bene: sanno che ci so fare, che sono capace. Il mio paese, sai, era tutto un formicaio di comunisti: l’ho ridotto che pare un convento, l’ho ridotto».
«E come hai fatto?» chiesi.
«Con le buone e con le cattive. Prima della mia» spiegò «ci sono state due amministrazioni comuniste: niente opere pubbliche, niente lavori; il bilancio del comune era così dissestato che gli impiegati stavano persino sei mesi senza ricevere stipendio. Finalmente tutti in paese capirono la musica, hanno votato per noi nelle ultime elezioni. E cominciarono a piovere i milioni per case, strade e fognature; il paese non si riconosce più tanto, è nuovo, le strade tutte a basoli, persino le chiese sono nuove. Ma chi aveva voglia di lavorare doveva portarmi la tessera di comunista e della CGIL, vennero tutti che pareva una processione. Facessero tutti come me, te lo dico io, i comunisti sparirebbero nel giro di ventiquattr’ore».
Restai a guardarlo in silenzio. Colto da un dubbio improvviso domandò: «ma tu non sei comunista, vero?».
«No» dissi «non ancora».
Sembrò rassicurato. «Vedi» continuò «io sono integralista».
Si lanciò a spiegarmi cosa l’integralismo fosse, il suo integralismo in particolare. E ne cavai la certezza che nonostante le cose fossero cambiate, il fascismo di allora rovesciato, lui era riuscito a trovare la sua strada.
Entrò nel ristorante una bella donna sola, l’integralismo di Bandiera cominciò a farfugliare. Non riuscendo a riprender volo, si decise a cambiare discorso. «Che donna!» disse «me la pagherei davvero una scappata con una donna simile; senza di voi due sarebbe cosa fatta».
Io e l’altro lo pregammo di non far complimenti, poteva abbordarla se voleva, noi saremmo andati via, non avremmo nemmeno aspettato il caffè.
«No» disse «voglio un po’ stare con voi. E poi ho un appuntamento con monsignor...; quando vengo a Palermo sempre così finisce, mi sfiato a correre da un appuntamento all’altro, alle tre mi aspetta monsignore, alle cinque avrò un colloquio col presidente, poi dovrò incontrare quelli dell’appalto. Per fortuna nell’albergo non manca qualche bella donnina, il cameriere me la fa trovare in letto, bella e pronta; ogni mattina questo cameriere mi fa “commendatò, stasera il solito sciroppo?” e io dico “sì, di colore diverso se è possibile” e ogni sera trovo una donna nuova, con cinquemila lire è tutto fatto. Riguardo a donne, sai, per me è come mangiare e bere: nemmeno per una giornata posso farne a meno».
«Sembri un personaggio di Brancati» dissi.
«Chi è Brancati?» domandò.
«Uno scrittore siciliano,» spiegai «quello che ha scritto i soggetti di Anni difficili e di Anni facili» ché a parlargli dei libri sarebbe stato tempo perso.
«Anni difficili l’ho visto, mi pare:» la fronte gli si rugò per lo sforzo di ricordare «l’ho visto sì, è quello che racconta la storia di un impiegato del municipio, sfotte i fascisti; sì, uno di quei film... C’è poco da sfottere, dico io, se Mussolini vinceva la guerra avrei voluto vedere tutti questi che sfottono».
«Sarebbero finiti in galera» dissi io.
«In galera certo» disse «e se vuoi che te lo dica, ce li caccerei anche oggi; questa è gente che fa danno: una volta ho letto un giornale che, figurati, sfotteva il discorso di un cardinale; di un cardinale, dico io: ma è roba da delinquenti. La libertà, dicono: gliela farei vedere io la libertà, da una finestra a graticola gliela farei vedere».
Non risposi. Disse: «La mungerei per un anno intero» ma diceva per la donna che sfiorava il nostro tavolo avviandosi alla toletta.
Prendemmo il caffè. Bandiera volle pagare il conto anche per noi. «Scusatemi» disse «ma tocca a me: per una volta che ci incontriamo, e poi...» si fermò, forse stava per dire che era ricco.
Fuori ci salutammo. Dissi, convinto come quando gli dicevo che sarebbe diventato federale «di questo passo, una volta o l’altra ti porteranno a deputato».
«A dirla tra noi» disse «se avessi voluto sarei già alla Camera, ma per ora non mi conviene, alla prossima forse».


Chiamò un tassì con un gesto imperioso. Mentre l’autista gli apriva lo sportello mi mise protettiva la mano sulla spalla. «Senti» disse «di qualunque cosa hai bisogno, due paroline: vedrai come ti aggiusto tutto».
(c) Adelphi Edizioni spa Milano

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