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Ma la sindrome della guerra ormai dilaga in Medioriente

Dopo le immagini di due soldati prigionieri trasmesse domenica sera, che avevano irritato ulteriormente Blair, qualcosa si muove negli incontri bilaterali

«La guerra? È in arrivo, bellezza». Lo dicono, lo scrivono, lo urlano un po’ tutti. Da Mosca a Teheran, dal Cairo a Damasco un solo grido, una sola paura mette d’accordo analisti, militari e giornalisti. La punta più alta della dilagante «polemofobia» si registrerà alle quattro di mattina (non si sa di quale fuso) del Venerdì Santo. A quell’ora - secondo il settimanale moscovita Argumenti Nedeli, ispirato da fonti dello Stato Maggiore russo, - inizierà l’Operazione Morso, una tempesta di missili e bombe intelligenti destinata in dodici ore a fare piazza pulita di tutti i centri di ricerca nucleare della Repubblica islamica. L’Operazione Morso si rivelerà immancabilmente una tempesta di carta, ma intanto contribuisce generosamente alla diffusione dell’imperante sindrome da conflitto incombente. Nel suo articolo su «La certezza della guerra» - pubblicato dal quotidiano londinese in lingua araba Al Hayat - il commentatore kuwaitiano Muhammad Al Rumihi ricorda che l’Occidente è «determinato a entrare nella madre di tutte le guerre» per impedire a Teheran di controllare la regione e fermare la sua influenza in Libano e Palestina. Un allarme condiviso dal quotidiano del Bahrain, Al Watan. Il sintomo più eloquente, rivela la testata, è «la crescente presenza di personale militare americano negli alberghi del nostro emirato, dove il 90 per cento delle stanze è ormai occupato». L’altro incontrovertibile segnale, secondo il quotidiano, sono gli «avvertimenti sull’alto rischio degli investimenti» indirizzate dai circoli militari statunitensi alle compagnie finanziarie statunitensi in Bahrain. A chi ancora non ci crede Al Watan ricorda il recente annuncio del responsabile della difesa civile sull’«aggiornamento degli impianti di allarme e di tutti i sistemi di rilevamento per minacce chimiche, biologiche e radioattive». Altre certezze sull’attacco statunitense arrivano dal quotidiano dell’opposizione egiziana Al-Masri Al-Yawm che segnala «il dispiegamento di missili Patriot nelle principali basi americani nel Golfo e soprattutto in quelle irachene».
I primi a sperare in una guerra anzitempo, aggiungono fonti d’intelligence israeliane, sarebbero i generali dei pasdaran. Convinti di dover comunque fronteggiare un attacco entro il prossimo autunno caldeggerebbero l’idea di imporre a Washington un raid anticipato costringendo il Pentagono a ridurre i tempi di preparazione. «Se l’America inizia la guerra contro l’Iran non sarà lei a finirla» promette dando credito a simili certezze, Morteza Saffari, comandante delle forze navali dei pasdaran. I negoziatori nucleari di Teheran sfruttano, invece, la dilagante «polemofobia» per notificare all’Agenzia internazionale per l’energia atomica il rifiuto di installare all’interno dei siti nucleari le previste telecamere di controllo: «Quelle telecamere - spiegano - potrebbero venir sfruttate dalle spie di Washington e Londra per indirizzare gli attacchi ai nostri impianti».
A esasperare i timori di Teheran contribuiscono il sovrano saudita Abdullah e i suoi collaboratori durante l’incontro con il presidente Mahmoud Ahmadinejad dello scorso 4 marzo: «Lo abbiamo avvertito – rivela in un’intervista il ministro degli Esteri di Riad Saud al Faisal - a non giocare con il fuoco, a non pensare che la minaccia non esista, a considerarla un pericolo non solo reale, ma addirittura palpabile». Quelle raccomandazioni non spaventano forse il bellicoso Ahmadinejad, ma di certo mettono in allarme i suoi alleati. «L’atmosfera è la stessa dei giorni precedenti l’aggressione americano-britannica all’Irak, ma l’obbiettivo stavolta è l’Iran» scrive il quotidiano governativo siriano Teshreen, dando sfogo ai timori di politici e militari.

Non a caso il generale Amos Yadlin, capo dell’intelligence militare israeliana, ha appena riferito al suo governo delle manovre difensive dispiegate da Iran, Siria e dai guerriglieri libanesi di Hezbollah in previsione di un attacco americano destinato, nelle previsioni di tutti, a scattare molto prima del prossimo autunno.

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