«La sinistra bestemmia, cresce la nostra collera»

«La sinistra bestemmia, cresce la nostra collera»

Guido Mattioni

da Milano

Fuori, piazza San Babila è un forno. Piazza San Babila è anche mille bandiere. In verità, piazza San Babila, ha un’unica bandiera. E hanno di che sgolarsi, quelli del semideserto gazebo per Ferrante sindaco, mimando un dibattito con la città. Il loro è soliloquio, perché la gente è qui tutta per lui, per Silvio «la bandiera». Così, quando arriva, è subito urlo, è coro, è tifo da stadio. «Uno di noi, Silvio sei uno di noi...», cantilena un gruppo di ragazzini sulle note di Guantanamera. Ma su tutti, si alza un grido solitario: «Silvio, liberaci dai ladri di voti!». Avrà sentito?
Dentro, il Teatro Nuovo è più forno della piazza. È sciabordio di teste, è festival delle gomitate, è calca inverosimile dove le sciure con stendardo e permanente reclamano un posto più avanti, «per vederlo», tenendo testa anche ai marcantoni del servizio d’ordine. Roba da matti: il compassato Giulio Tremonti, per guadagnare il palco, scavalca di slancio una balaustra. «Silvio dacci un saluto», chiede la folla. Proprio a uno che cose così non se le fa mai chiedere: e giù a stringer mani, a salutare, a sorridere.
Poi sale sul palco, alzando il braccio alla candidata sindaco Letizia Moratti. E il teatro vien giù. «Va’ che bela tusa... alla mia età certe emozioni possono essere pericolose», dice con la voce ridotta a un filo. Scherza, mentre lo raggiungono leader ed esponenti della Casa delle libertà, da Pierferdinando Casini al leghista Calderoli, da Gianfranco Fini a Umberto Bossi.
Scherza Berlusconi, ma si intuisce che quel grido sui ladri di voti l’ha sentito. «Ci siamo tutti, possiamo incominciare?», chiede subissato da un interminabile «Sììììì». Poi sorprende il pubblico. «Non voglio disturbarvi con questa voce che mi è rimasta dopo un mese intero di congressi, comizi, incontri e soprattutto dopo gli interventi nelle città dove siamo in lizza. Così stasera io evito il mio intervento e mi faccio fare il comizio da voi. Basta che rispondiate a qualche mia domanda».
E la prima domanda - sì, aveva sentito - è proprio quella che tutti si aspettano: «Avete anche voi l’impressione che il 9 aprile abbiamo subìto una specie di furto?» Un «Sì», più forte e interminabile del primo, fa tremare il vecchio salone del Teatro Nuovo e sale fino in piazza, scuotendo il gazebo di Ferrante. «Volete ripetere?», insiste il Cavaliere con la mano all’orecchio. Ed è subito bis. Sullo stesso tasto, Berlusconi insiste in tarda serata anche al comizio conclusivo della campagna elettorale, in piazza del Popolo a Roma, dove torna a parlare di «irregolarità» nel voto del 9 aprile chiedendosi dove siano finite «le 153mila schede» che mancano all’appello e come mai alla Camera, «pur essendoci 3,5 milioni di elettori più del Senato, ci sono 42mila schede bianche in meno?».
Domande che gettano sul risultato delle ultime elezioni politiche un’ombra inquietante. Domande come quelle poste ieri ai milanesi. «Vi pare giusto che con solo 24mila voti di scarto, tutti da verificare, la sinistra abbia occupato tutte le istituzioni?». Gli piace, il meccanismo. «Così, ora che ci chiedono il dialogo dobbiamo accettare?», aggiunge. «E dobbiamo accettare la loro elemosina?». Dopo i prevedibili «Noooo», continua: «Siete consapevoli che l’Italia è l’unico Paese in Europa ad avere i comunisti, quelli con la K, al governo?». Infine, il colpo da maestro: «Siete convinti che se questa sinistra, questo governo, tirano ancora la corda dobbiamo scendere in piazza e andare tutti a Roma?».
E proprio nella capitale, più tardi, ritorna sullo stesso punto avvertendo la sinistra. «Ci hanno detto che scendere in piazza è un reato, ma loro lo hanno fatto 8mila volte l’anno, quando eravamo al governo. Ma quando saremo noi a scendere in piazza, allora in quel caso varrà l’insegnamento biblico: “Dio li salvi dall’ira dell’uomo paziente”». E se a Roma l’affermazione scatena gli applausi, la domanda rivolta ai milanesi scatena un boato, con la platea che balza in piedi. E chi è già in piedi - tanti, tantissimi, la maggioranza, in ogni spazio possibile e impossibile - grida, applaude o sventola bandiere.
Non avrà quasi più voce, il Cavaliere, ma la veemenza non gli fa difetto. Così si scorda la premessa - «stasera evito il mio intervento» - e parte. «Nessun accordo - promette - la nostra sarà opposizione dura senza paura», insiste sollevando un tifo assordante che copre la sua voce. «Non mi lasciate parlare, sembrate di sinistra!», scherza divertito. Poi, serio, fa un appello. «Abbiamo di fronte due grandi opportunità: domenica e lunedì prossimi con le amministrative e il 25 giugno con il referendum sulla devolution». L’appuntamento più vicino, dice il Cavaliere, servirà «a mandare un primo avviso di sfratto alla sinistra. Poi, il 25 giugno, con il referendum, non daremo l’avviso, ma lo sfratto».
Non lo frena più nessuno, Berlusconi, al quale il suo pubblico è capace di restituire la voce. «Al referendum votiamo sì contro l’Italia del no, contro l’Italia di Prodi e dei comunisti, contro l’Italia dell’invidia e dell’odio, contro un’Italia che sa solo distruggere e non sa costruire. Ma andare indietro vuol dire far crescere la collera che è già ad alti livelli in tutta l’Italia produttiva e positiva. Quindi non credo che i signori della sinistra possano dormire sonni tranquilli: faremo un’opposizione dura, non faremo passare nulla di quelle bestemmie che stanno dicendo sulle nostre riforme». È irrefrenabile l’ex premier: «Credo che alla sinistra manchi anche l’intelligenza di capire cosa sta succedendo, altrimenti si sarebbero seduti attorno a un tavolo con noi e avrebbero fatto un altro capo dello Stato e non si troverebbero in questa situazione. E in un crescendo: «Se c’era ancora da eleggere il Papa, lo facevano comunista...».
A succedergli per primo, al microfono, è l’ex presidente della Camera. E strappa un lungo applauso, Casini, quando dice che «noi avremo perso le poltrone, ma abbiamo riconquistato il nostro popolo». Mani che si spellano anche per Fini, quando sostiene che «se il buongiorno si vede dal mattino, visto come è cominciato il governo Prodi pensiamo che qualche elettore di centrosinistra, domenica e lunedì voterà per il centrodestra, mentre è difficile che accada l’inverso. Perché il governo Prodi - insiste - è peggio del peggio che avevamo temuto».
Un applauso commosso accoglie Umberto Bossi, visibilmente affaticato, che però non ha voluto mancare all’appuntamento. Arriva e alza il pugno come nei giorni di gloria, il vecchio leone padano. E ribadisce anche lui che alle ultime elezioni «le irregolarità ci sono state, che alcuni partiti della Cdl dovevano mandare più controlli» ai seggi. Ma ora guarda avanti. «Dobbiamo fare queste elezioni e vincere a Milano - si raccomanda - e poi via a prendere la corsa che porta al federalismo, piano piano, attraverso la devolution». È sempre quello - e quale sennò? - il pensiero fisso del senatùr. Perché c’è una sola data impressa nel suo cuore: il 25 giugno.

E un’unica parola, brevissima, è sempre lì a rimbalzargli nel cervello: il «Sì» da barrare sulla scheda del referendum. E così, come il Cavaliere, sta al gioco e tende anche lui l’orecchio al pubblico. Che capisce e risponde in coro: «Sì, Sì, Sì, Sì...».

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