Politica

La sinistra esulta, il premier trema

da Roma

Senza nascondersi nulla, uno striscione alla manifestazione di sabato disvelava la realtà delle cose: «Questo è un governo di merda, ma è il nostro governo».
Così vive la Sinistra gli ultimi giorni di Romano Prodi sull’orlo del baratro. Molti vedono imminente la caduta, ma è più facile il solito galleggiamento privo d’orizzonte. «Per il Pd un vuoto a perdere», dice il socialista Boselli. Molto potrà chiarire il passaggio della Finanziaria al Senato, dove la maggioranza è una linea d’ombra. Molto diventerà ancora più chiaro a gennaio, quando gli equilibri dentro il Pd saranno definiti, e Prodi vorrà procedere a una crisi «pilotata» che ridia slancio all’esecutivo, con la riduzione del numero dei ministeri. Rimpasto che fa tremare i polsi al premier, e non solo: come dice Rosy Bindi, «per fare un governo più bello potremmo non averne neanche uno».
Il centrista Casini ribadisce (e spera) che Walter Veltroni sia deciso e pronto alle elezioni anticipate, persino già a primavera. Una tentazione che potrebbe essere resa concreta dalle vicende giudiziarie del caso Mastella, ma anche dalla considerazione che Prodi, tirato per la giacchetta dalla Sinistra, sia diventato ormai una sorta di «Allende italiano», per dirla con il deputato neo-veltroniano Peppino Caldarola. Magari avesse almeno il piglio intellettuale dello statista cileno: meno nobilmente, il premier appare soltanto ostaggio dei suoi più strenui difensori di sinistra, sempre più ingessato nella sua azione politica, sempre più barricato nella ridotta di Palazzo Chigi. «Prodi più Piazza Rossa uguale sconfitta certa» è l’equazione caldaroliana.
La manifestazione sul welfare non ha spostato granché dell’asse di governo, né riuscirà a modificare nulla del protocollo varato da Prodi. Le modifiche saranno lo spartito suonato dalla Sinistra in Parlamento, così per rendersi visibile e tenere in (precario) equilibrio il governo, altrimenti «monocolore Pd». La manifestazione non ha cambiato molto neppure dei rapporti a sinistra, per la costituenda Cosa rossa. Anzi, ha aperto un regolamento di conti tra chi c’era e chi no, con il comunista Diliberto all’assalto delle sempre più sparute truppe di Mussi e Pecoraro Scanio («Chi non c’era ha sbagliato», l’ukase dilibertiano). Le centinaia di migliaia scesi in piazza San Giovanni a Roma hanno dimostrato soltanto che la vecchia sinistra comunista esiste ancora, è viva e vitale, ma difficilmente riuscirà a compiere quel salto di qualità che consenta di parlare di una «Epinay italiana» - immagine cara al presidente della Camera, Bertinotti -: ovvero momento rifondativo dell’intera sinistra, come quella imbastita dal socialista Mitterrand in Francia. Senza Verdi e senza la Sinistra democratica di Mussi, senza i socialisti della Costituente di Boselli e Angius, la Cosa rossa vista in piazza sabato è niente di più e niente di meno che Rifondazione comunista prima della scissione del ’98. Ovvero, a essere ottimisti, l’otto per cento dell’elettorato. Poco per poter puntare a essere una reale alternativa al Pd, al suo scarno impianto politico. Ma sufficiente a costituire la tradizionale forza comunista di freno o veto rispetto alle politiche altrui.
Questo, al momento, è anche il ridotto sentiero al quale Prodi affida le speranze di sopravvivenza. L’orgoglio della Cosa rossa Comunista imbriglierà ulteriormente la sua azione, senza che il premier possa nemmeno fare ciò che la Sinistra chiede. Il ministro Ferrero è già tornato alla carica sulla tassazione delle rendite. Nei prossimi giorni - sulla Finanziaria come sul protocollo e su ogni altro tema - la Sinistra di piazza farà sentire con forza la propria voce. Senza che Prodi voglia o possa immaginare di accontentarla. Non ci sarà perciò alcuna «fase due»: si è tesa ancora di più la coperta del governo, in pratica, senza che nessuno dei blocchi offra la necessaria copertura al Re, più nudo di prima. I contendenti pensano alla propria parrocchia, alle proprie bandiere. Ma per misurare le forze, alla fine, la piazza non basta.

Occorre un giudice più severo e sovrano: l’elettore.

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