La sinistra punisce il Paese perché non lo ha mai capito

Federico Guiglia

Doveva essere l’altra faccia della manovra, la faccia dell’irriverenza che dava il segno della tanto sollecitata e finalmente raggiunta «discontinuità» di governo. Invece col senno del poi quell’invocazione così puerile ma emblematica de «anche i ricchi piangano» lanciata dai manifesti di Rifondazione comunista con yacht bianco e mare azzurro sullo sfondo, e la scritta «Finanziaria 2007» apposta sopra come un timbro, è stata la prima fotografia del boomerang. Il boomerang di un provvedimento legislativo che ormai scontenta tutti: bollato di «classismo» dalla Confindustria, bocciato dalle agenzie internazionali preposte alle analisi economiche, criticato persino da quegli ambienti che in teoria avrebbero dovuto beneficiare del presunto risanamento e dell’ipotizzato rilancio. Ambienti che invece ora denunciano sia il rischio del taglio di fondi strategici, dall'Università alla ricerca - già, proprio quella ricerca che doveva essere potenziata come un vanto del governo - sia un aumento delle risorse del tutto insufficiente per un altro settore in sviluppo come quello della Difesa. Di nuovo, si parla proprio del settore che oggi impegna migliaia di soldati italiani nelle aree più calde del pianeta, con effetti politici decisivi per il ruolo e l’immagine internazionali dell’Italia; effetti che si sono infatti visti anche di recente nella plebiscitaria votazione per l’ingresso del nostro Paese al vertice dell’Onu come membro non permanente, il prossimo anno. Non è difficile immaginare che il pacifismo politico dell’ala estrema ma interna alla maggioranza abbia condizionato e condizioni anche quest’aspetto, impedendo di poter assegnare alle Forze Armate gli stanziamenti necessari per le sue accresciute responsabilità di impiego all’estero.
Il problema è che la manovra, un testo dalla fondamentale tecnica amministrativa e finanziaria che dovrebbe avere come unici obiettivi quelli di far quadrare i conti dello Stato e di spingere l’economia e la produttività nazionali, ha pagato un pedaggio ideologico-politico quale mai l’aveva pagato in passato; esattamente come ha chiarito con straordinaria efficacia comunicativa quel manifesto rivelatore e anticipatore di Rifondazione, col concetto implicito che la ricchezza sia colpa grave o un’ingiustizia da riparare e «ripagare» in termini di tasse, anziché spesso il frutto di sacrifici o il risultato delle capacità, e comunque sempre uno stimolo a cercare di «far meglio» per gran parte della società.
È come se il centrosinistra, prigioniero di vecchie logiche «anti-padronali», non conoscesse più la reale situazione della maggior parte degli italiani. I quali hanno, per limitarci al campo del concreto vivere quotidiano, ben tre primati nel globo: il numero più alto di case in proprietà, di automobili possedute e di telefonini immancabilmente accesi (dunque e detto per inciso: non solo regna per tutti la possibilità di comprare questi telefonini in quantità industriali, ma pure di pagarne l’uso e l’abuso di chiacchiere).
Prendersela perciò con la ricchezza di un Paese che tende al benessere, e con un pil (prodotto interno lordo) che da anni gli consente di sedere fra le nazioni con le economie più forti del pianeta, denota certo l’anacronismo delle estreme. Ma testimonia soprattutto che il governo, subendolo, non intende cogliere l’anima di quest’Italia. Non intende capire gli italiani per quello che sono, cioè per quello che non sono più e non sono, in maggioranza, mai stati: degli immaginari e rancorosi appartenenti a un mondo in perenne lotta con la borghesia capitalista. Li tassa per punirli di ciò che non è reato.
f.

guiglia@tiscali.it

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