Siria, strage nel giorno della rabbia Dall’Europa via libera alle sanzioni

Il dissenso contro il regime è arrivato alle porte del palazzo siriano di Bashar El Assad nonostante settimane di repressione delle sue forze di sicurezza. Ieri a Damasco 10mila persone hanno manifestato in solidarietà con la cittadina di Daraa, roccaforte della protesta iniziata sei settimane fa. Hanno urlato «il popolo vuole la fine del regime», «basta con l’assedio di Daraa». E nelle stesse ore si sono sollevati anche i sobborghi della capitale. I video amatoriali messi su You Tube, che tentano di raccontare gli eventi in assenza della stampa internazionale bandita dal Paese, mostrano manifestazioni in diverse città della Siria.
Nel «venerdì della rabbia» sono scesi in strada gli abitanti del porto di Latakia, quelli di Hama e di Jablah, di Deir Al Zour, nell’est, di Baniyas, sempre sulla costa, quelli delle regione curde a oriente. A Latakia sarebbero morte almeno tre persone, hanno riferito testimoni. In tutto il Paese ieri sarebbero rimaste uccise 35 persone (48 secondo alcune Ong), 15 soltanto a Daraa, riferisce Al Jazeera, dove l’esercito avrebbero sparato sulla folla. Secondo la televisione di stato, nella stessa città i manifestanti avrebbero ucciso quattro soldati. Ma il bilancio della primavera siriana è molto più pesante. Dall’inizio delle proteste, a metà marzo, i morti sarebbero quasi 500 secondo le organizzazioni per i diritti umani siriane. La violenta repressione ha fatto scattare, seppur con ritardo, la reazione della comunità internazionale. In queste ore gli Stati Uniti dovrebbero annunciare l’imposizione di sanzioni contro membri degli apparati di sicurezza siriani, familiari del rais Assad e i loro asset in America. Tra questi ci sarebbero il fratello Maher, comandante della quarta divisione dell’esercito protagonista delle repressioni, e Atif Najib, ex leader della sicurezza di Daraa. Con il crescere della tensione emergono in Siria le prime crepe all’interno del regime: almeno 300 membri del partito al potere dal 1963, il Baath, avrebbero preso le distanze dal governo e molti soldati inviati a Daraa avrebbero disertato.
La diplomazia sta cercando con i propri mezzi di arginare le violenze del regime siriano contro i civili. Molti governi occidentali hanno condannato le repressioni, chiesto a Damasco di aprire alle riforme, ma nessuno ha ancora domandato le dimissioni del rais che con il suo anti-americanismo e la sua amicizia con gli ayatollah di Teheran è al centro dei troppo fragili equilibri regionali. Nelle ultime ore sono emerse fratture in seno alle Nazioni Unite e all’Unione europea sull’ampiezza delle misure da prendere. Ieri, sia a Bruxelles sia a Ginevra, la diplomazia ha rallentato di fronte ai disaccordi tra i governi. Infine, gli ambasciatori dei 27 Paesi dell’Unione europea hanno deciso «in linea di principio» di imporre un embargo alla vendita di armi alla Siria e di preparare misure addizionali per punire il regime. Nonostante tutto, c’è chi in Europa vuole valutare meglio le implicazioni a lungo termine del progetto, sostenuto soprattutto da Francia, Germania e Gran Bretagna. L'Unione europea è infatti il primo partner commerciale della Siria, con scambi per 5,4 miliardi di euro nel 2009. Bruxelles spende circa 130 milioni di euro all’anno in programmi di aiuto economico e rurale per la Siria. E alle Nazioni Unite sembra esserci ancora meno unità sulla questione siriana.

Ieri, a Ginevra, si sono riuniti i 47 Paesi membri del Consiglio per i diritti umani. Una bozza di risoluzione proposta dagli Stati Uniti per condannare le repressioni siriane e aprire un’inchiesta sulle violenze è però stata accolta con freddezza da Cina, Russia, i Paesi africani e arabi.

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