Al Sisi si butta sul Canale di Suez ma il suo futuro è in mani cinesi

L'Europa latita. E intanto Pechino, con accordi da 15 miliardi di dollari, è l'investitore principale nella terra dei faraoni

Marco Valle

L'Egitto soffre, barcolla ma non molla. Anzi, con fatica cerca superare gli spasmi causati della cosiddetta «primavera araba» e uscire dal cono d'ombra. Anche con misure eccezionali, indispensabili per affrontare e risolvere la forte disoccupazione interna, l'aumento senza precedenti del tasso d'inflazione, la crisi del turismo, le trame dei fondamentalisti, il caos libico e il terrorismo nel Sinai. Un compito terribilmente complesso anche per il ferrigno presidente Abd al-Fattah al Sisi.

Da qui la decisione, come già Nasser nel 1956, d'investire le poche risorse statali disponibili sul Canale di Suez la principale infrastruttura del Paese e un'arteria vitale del sistema mondo il destino della Nazione. Nel 2014 il generale Al Sisi in accordo con i vertici delle Forze armate, il principale centro di potere della Repubblica ha lanciato un'imponente campagna mediatica e una sottoscrizione popolare per finanziare la ristrutturazione e l'allargamento della via d'acqua. Il governo cairota ha affidato a quattro banche la vendita pubblica di titoli cartolarizzati a cinque anni, con un tasso d'interesse del 12 per cento, riservati però solo a cittadini egiziani. Una scommessa rischiosa, tutta improntata sui temi della dignità e dell'orgoglio nazionale.

Un anno dopo, il 6 agosto 2015, il leader egiziano ha inaugurato solennemente la nuova autostrada del mare. Un'opera colossale. Accanto al percorso storico immaginato nell'Ottocento dai sansimoniani, progettato da Luigi Negrelli, con il prezioso appoggio di Pietro Paleocapa, e realizzato da Ferdinand de Lesseps , è stato scavato un nuovo canale parallelo, lungo 35 chilometri, e allargato e approfondito di 37 chilometri quello già esistente. Il raddoppio «parziale» permette di duplicare il traffico (da 49 a 97 navi al giorno), ridurre drasticamente i tempi d'attesa (da 11 ore a solo 3) e consente il passaggio dei giganteschi bastimenti ro-ro di nuova generazione e delle superpetroliere. Costo immediato 4 miliardi di dollari, a cui si devono aggiungere altri 4,5 miliardi per la realizzazione di sei tunnel (tre a Ismailia e tre a Port Said), un cantiere navale, sei porti e l'apertura di una zona industriale free tax, la Suez Economic Zone, un'area di 461 chilometri quadrati. Secondo le (forse troppo) ottimistiche previsioni del governo, una volta completato l'intero progetto, le entrate dovrebbero passare dai cinque miliardi di dollari del 2014 a 13,5 miliardi producendo un milione di posti di lavoro in dieci anni.

Un piano ambizioso, forse troppo. Il forte calo del prezzo del petrolio rende oggi conveniente per gli armatori il periplo dell'Africa, o il più conveniente Canale di Panama. In prospettiva, c'è poi l'ormai prossima apertura della «rotta artica». Per l'idrovia egiziana una minaccia seria: lo scioglimento della banchisa è sicuramente una catastrofe ecologica ma, al tempo stesso, rappresenta una vera e propria «rivoluzione spaziale» per i trasporti marittimi; le nuove rotte a Nord Est, lungo la costa siberiana, e a Nord Ovest, attraverso gli arcipelaghi canadesi consentiranno agli armatori risparmi sostanziali di carburante, noli e premi assicurativi (maggiorati dal conflitto nello Yemen e dalla pirateria nel Golfo di Aden e negli stretti di Malacca). Ma a inquietare ancor di più il Cairo vi è la crescita dei collegamenti ferroviari dalla Cina all'Europa e ritorno, la «nuova via della seta». Una sfida trasportistica formidabile: già oggi i convogli impiegano 17-19 giorni (con un risparmio di due terzi del tempo rispetto al trasporto via nave).

Per fronteggiare la concorrenza e salvare gli investimenti, all'inizio del 2017 la Suez Canal Authority è stata costretta abbassare in modo radicale le tariffe del Canale: uno sconto del 40 per cento per le rinfusiere cariche in viaggio dal Sud Africa verso il Mediterraneo e il Mar Nero e del 75 per le rinfusiere cariche in transito dall'Australia all'Europa settentrionale.

Grazie ai nuovi prezzi, dopo un mediocre 2015 e un pessimo 2016 i primi dati sono finalmente positivi. Nel rapporto dell'Authority (sempre avara di numeri) i dati complessivi dei primi cinque mesi lungo l'idrovia sono transitate complessivamente 7.112 navi, con un aumento del 2% rispetto allo scorso anno: 1.832 petroliere (+1%). 5.273 navi d'altro tipo (+2,3%) con un'aumento complessivo di 367,3 milioni tonnellate di merci (+10,6). Al netto degli sconti, si tratta di una boccata d'ossigeno. Salutare ma provvisoria.

Non a caso il Cairo ha deciso di puntare le sue carte sullo sviluppo della Suez Economic Zone. Da mesi la signora Nasr e Mohab Mamish girano il mondo per chiudere contratti importanti: da gennaio a oggi sono stati firmati accordi con la Germania (Siemens e Mercedes), gli Emirati Arabi (Dubai Ports per la logistica) e soprattutto con la Cina. L'ultimo affare concluso riguarda la costruzione sulle sponde del Canale del centro direzionale del programma spaziale egiziano.

Con 267 milioni di dollari negli ultimi cinque anni e la firma nel 2016 di un accordo di cooperazione di 15 miliardi di dollari, Pechino è il principale investitore nella terra dei faraoni; il suo ferro di lancia è la China Egypt Suez Economic and Trade Cooperation Zone, una joint venture che amministra ad Aim Sokhma un'enclave gialla di 7,23 kmq, in cui sono impiantate già 68 imprese tra cui la Jushi, un

colosso mondiale della vetroresina.

Insomma, mentre l'Europa traccheggia o interviene in ordine sparso, i cinesi hanno deciso di puntare risolutamente sull'Egitto laico di Al Sisi. L'Italia, al momento, risulta non pervenuta.

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