Slurp, c’è del buono in Danimarca

Chi l'avrebbe mai detto? C'è dell'aceto, in Danimarca, la nuova frontiera dell’alta cucina europea. Di mele, che qui abbondano in quantità e varietà, profumate di sentori che vanno dal dolce, all'acidulo, alle spezie, alla rosa. L'aceto danese, a sorpresa, è balsamico: la conversione è avvenuta sulla via di Modena, dove a Claus Meyer, celebrity chef danese, si sono manifestate pochi anni or sono acetaie e barriques. Tornato in patria, Meyer ha cominciato con il buon vecchio metodo «osservo, sperimento, imparo», inizialmente anche sbagliando, per esempio con l'aggiunta di estratto di vaniglia.
Oggi, sembra di sentir parlare un alter ego scandinavo di Carlo Petrini, per buoni propositi e unità d'intenti estetici ed etici, quando Meyer, che si è ritirato a vita agricola sull'isola di Lilleø dopo anni di attività a Copenaghen, spiega la sua visione gastronomica. Parla del Manifesto della Nuova Cucina Nordica, firmato da una decina di chef scandinavi e sostenuto dai governi dei rispettivi Paesi. Tra i punti programmatici: «esprimere la purezza, la freschezza, la semplicità e i valori etici che vogliamo associare alla nostra terra»; «riflettere le stagioni»; «promuovere prodotti e produttori nordici»; «sviluppare nuove possibili applicazioni di prodotti alimentari tradizionali nordici», che poi è quel che Meyer ha messo in pratica con l'avvio della produzione di aceto di mele balsamico.
Seduto a tavola dopo aver registrato una puntata en plein air del programma New Scandinavian Cooking, Meyer, studi di economia alle spalle, parla dell'inversione nel rapporto della spesa pro capite per l'alimentazione nel suo Paese: si spende di più, si è più disponibili a riconoscere e pagare la qualità. Dice che ci si è resi conto, anche alle sue latitudini, della necessità di comunicare il territorio, di dare emozioni come racconterà a Identità Golose il 30 gennaio a Milano. In Danimarca, dice, c'è tanto da fare: c'è da cambiare la cultura del cibo, c'è da difendere la bellezza - dice proprio così: bellezza. Racconta l'importanza di arrivare a posizioni di controllo nella distribuzione: «Se sei al comando, puoi imporre alla gente cosa mangiare: puoi riuscire a imporre la qualità». Cosa che si propone di fare lui con il suo aceto, benché la strada da fare sembri ancora lunga, per raggiungere risultati apparentabili con il balsamico che abbiamo in mente noi.
Ancorata alla natura scandinava, ma pulsante nel cuore della capitale, è invece la cucina di Rene Redzepi (si pronuncia Regièpi), chef non ancora ventinovenne del Noma di Copenaghen, ristorante il cui nome è programmaticamente composto delle prime due sillabe delle parole «Pasto Nordico» in danese. È una cucina che evoca lande innevate, odori e suggestioni di sottobosco, austerità del lungo inverno del nord. Una cucina carica di una sua poesia che le viene da un senso di remoto, dal suo essere altro.
I piatti si chiamano, volutamente, come i paesaggi da cui provengono gli ingredienti: «Lava e ghiaccio», «Distese artiche», «campo di patate», «palude», «il paese delle fattorie». Se fosse l'inizio di un romanzo, «Lava e ghiaccio», l'antipasto, sarebbe uno di quegli esordi che prendono il lettore di peso scaraventandolo nel cuore dell'azione. Niente preludio, niente titoli di cortesia: qui è immediata la rudezza dei contrasti tra il succo dolce della barbabietola e il pungente del rafano, con il gelo del latticello su cui fioccano scaglie di midollo affumicato. Evoca il paesaggio glaciale, il freddo inverno del nord. Purezza, semplicità - in perfetto ossequio al Manifesto della Nuova Cucina Nordica sottoscritto, tra gli altri, anche da Redzepi - troneggiano in ogni piatto: pochi elementi, riconoscibili, linee pulite come il design tutto danese del locale. Il manzo viene offerto con erbe che raccontano il luogo in cui l'animale ha vissuto e si è cibato, libero. Il muschio crudo con l'acetosella e le briciole di pane di segale e le bacche di ginepro invitano a giocare mangiando con le mani, pulendo ogni briciola - virtù nordica invernale.
Piano piano la cucina di Redzepi si svela, si fa capire nel suo mettere in campo una natura verso cui lo chef esprime rispetto e devozione. Rene lavora per accostamenti più che per combinazioni. Ricorda «disgelo» di Andoni Luis Aduriz il suo dessert «Il paese delle fattorie»: la mousse di latte di pecora con il granitè di erbette congelate è, prima di tutto, buona, e poi adempie anche all'intenzione dello chef di rappresentare una storia che è una tautologia, ovvero il latte dell'animale presentato assieme alle erbe di cui l'animale si è cibato - come dire, erbe danesi in due differenti stadi.
La Danimarca, di questi tempi, possiede il binomio vincente di natura e pensiero. E se invece quel che si cerca è Andersen, la favola, la locanda che chiude fuori il freddo e conforta con piatti di caccia e di pesca, si trova ancora anche quella. Da Lolles Gaard, sull'isola di Møn, il tempo torna indietro mentre si mangiano aringhe. Al limitare del prato facente funzioni di piazza del paese è depositata una cassetta. Dentro ci sono ortaggi, prodotti in sovrappiù da alcuni abitanti del villaggio. Si lascia una monetina, si prende la verdura. Una favola.

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