«Sono stato di recente a sud di Foshan, nel distretto cinese delle piastrelle. Sa cosa ho trovato? Nebbia, nebbia per 100 chilometri causa inquinamento», dice Giorgio Squinzi, presidente di Federchimica e numero uno del gruppo Mapei, leader mondiale nel settore dei prodotti chimici per l’edilizia. Il viaggio negli squilibri creati dalla crescita ipertrofica dell’ex Impero Celeste ha reso Squinzi forse ancor più scettico sulla volontà del governo di Pechino di affrontare di petto i problemi ambientali in occasione del vertice sul clima di Copenaghen, che prenderà il via domani per concludersi il 18 dicembre.
Presidente, quante chance ci sono per trovare un’intesa condivisa tra i maggiori Paesi sul surriscaldamento della terra?
«Le possibilità sono scarse, purtroppo. La Cina asseconda un progresso troppo rapido sacrificando la capacità di visione complessiva. Gli Stati Uniti, dopo le promesse elettorali di Obama sull’ambiente, sembrano più concentrati sulla risoluzione della crisi economica».
La conferenza danese sarebbe un fallimento se...?
«Se la proposta di riduzione delle emissioni fosse pari al 5%. Usa e Cina sono responsabili del 50% delle emissioni di anidride carbonica dell’intero pianeta. Sto parlando di 45 miliardi di tonnellate l’anno. Il peso dell’Europa è pari appena al 10% del totale, e quello dell’Italia rappresenta il 10% di questo 10%».
L’Europa non deve insomma farsi carico delle inadempienze altrui?
«Non possiamo permettercelo. In gioco c’è sicuramente il futuro delle prossime generazioni, ma anche il destino delle nostre imprese manifatturiere, la cui capacità competitiva verrebbe messa in pericolo».
L’Ue ha mostrato, soprattutto nel periodo recessivo, di non muoversi in maniera coordinata. Si siederà al tavolo del vertice poco coesa?
«No, non credo. Il problema è stato molto dibattuto, e salvo fughe in avanti di quei Paesi scandinavi un po’ talebani perché privi di industrie manifatturiere, penso che l’Europa si muoverà in modo compatto. Del resto, è nettamente più avanti, più virtuosa di altri. E poi, ripeto, non possiamo auto-penalizzarci, pena il declino della nostra economia. Non ci si può chiedere di scavarci la fossa».
Lei è dunque convinto che l’industria chimica italiana abbia fatto il massimo per tutelare l’ambiente?
«La nostra chimica è in anticipo rispetto ai tempi imposti dal trattato di Kyoto. Dal 1991, con l’adozione del Responsible Care (il programma volontario dell’industria chimica mondiale per un mondo più verde, ndr), abbiamo abbattuto drasticamente le emissioni, un 7% in meno. Ogni anno il settore ha investito nell’ambiente 900 milioni di euro, su un fatturato tra i 50 e i 60 miliardi. Senza contare che per ogni tonnellata di anidride carbonica prodotta dalla chimica se ne risparmiano tre. Per esempio, le materie plastiche destinate all’industria automobilistica consentono di limitare le emissioni inquinanti».
L’Europa non può sostenere costi ulteriori per l’ambiente, ma resta il fatto che l’Agenzia internazionale dell’energia parla di 10.500 miliardi di dollari da reperire nei prossimi 20 anni.
«Temo che la cifra in gioco sia molto più alta».
L’ad di Enel, Fulvio Conti, teme infatti l’introduzione di una carbon tax.
«Non è una strada praticabile, perché può distorcere le regole di mercato».
In caso di mancato accordo, a sentire gli esperti si profilano scenari apocalittici: in Italia, estati roventi e un crollo del 70% delle risorse idriche...
«Questi scenari sono discutibili. E la drammatizzazione non aiuta certo a risolvere i problemi».
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