Sognavano una bomba al Duomo ma il giudice li rimette in libertà

Per i due marocchini il pm aveva chiesto la massima pena per terrorismo. Nelle intercettazioni dicevano: "Un camion come questo e pam! È il mio desiderio. Facciamo esplodere anche la caserma"

Sognavano una bomba al Duomo ma il giudice li rimette in libertà

Milano - «Un camion come questo e pam! È il mio desiderio. Un camion pieno di bombe, strapieno». Oppure: «É tutto pieno, quel posto. Vado dall’altra parte con un bidone di benzina, verso tutto e quando torno la seconda volta butto una fiamma». O ancora: «Se trovassi qualcuno che vende gli esplosivi, giuro su Allah che tenterei di raccogliere i soldi. Due macchine o un camion». E anche: «Questa caserma la faccio esplodere». Così parlavano, tra di loro, Ilhami Rachid e Abdelkader Ghadif, marocchini e aspiranti martiri.
Per la Digos erano due terroristi. Per la Procura di Milano, idem. Per il giudice preliminare Silvana Petromer, che nel dicembre 2008 li spedì in cella, erano addirittura dei complici di Al Qaida, la rete di Osama bin Laden. Al processo, il pubblico ministero Nicola Piacente aveva chiesto la loro condanna per terrorismo internazionale: undici anni per Ilhami Rachid, cinque anni per Ghadif. E invece alla Corte d’assise di Monza bastano tre ore di camera di consiglio per assolverli con formula piena: macché terroristi, «il fatto non sussiste». Ilhami viene condannato per una bagatella, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il giudice Italo Ghitti ordina la scarcerazione immediata. Rachid lascia la gabbia quasi incredulo, massaggiandosi i polsi arrossati dale manette, sgranchendosi le gambe anchilosate dal carcere.
E allora? Qual è la verità? Meno di due anni fa, le prove a carico dei due erano state ritenute talmente schiaccianti da far finire i loro arresti in prima pagina con titoli allarmanti («Volevano colpire il Duomo») e da spingere il ministro degli Interni Bobo Maroni a lanciare l’idea di applicare anche ai fanatici dell’Islam il 41 bis, il carcere duro previsto per i mafiosi. Ieri mattina, un tribunale della Repubblica dice che non è vero niente. Rachid e Ghadif sono due trafficoni e due chiacchieroni, gente che parlava per dare aria ai denti, e le loro promesse di stragi solo fanfaluche. Come ha spiegato Ilhami prendendo la parola davanti ai giurati: «Le nostre erano solo parole, in Italia c'è democrazia, per cui si possono esprimere idee, non come da noi».

Fa niente se poi una di queste idee è stata messa in atto davvero: l’attacco alla caserma Perrucchetti, di cui i due parlavano in una intercettazione («A Bande Nere c’è una caserma, dobbiamo andare a vedere») e contro la quale nell’ottobre scorso si scagliò, imbottito d’esplosivo, il libico Mohamed Game. Fa niente se qualche labile traccia collega il bombarolo della Perruicchetti agli assolti di ieri, giacché a casa di Game la Digos trovò i ritagli sull’arresto dei due, e si scoprì che visitavano gli stessi siti da guerriglieri. Fa niente. La responsabilità penale è personale, dice in sostanza la sentenza di ieri, ed è legata non alle idee ma ai comportamenti concreti. Se non c’è prova che alle chiacchiere sia seguito un tentativo - anche blando - di tradurle in realtà, allora non c’è terrorismo.
I due marocchini hanno avuto anche fortuna. Una delle intercettazioni decisive, quella del 28 novembre 2007, quando parlavano in auto di un camion carico di bombole di gas («Quando esplode distrugge un paese intero!»), nel processo non è mai entrata perché, per un banale errore di copiatura, per colpa di un 5 che sembrava un 6, al suo posto ne è entrata un’altra: e quando l’accusa ha provato a chiederne la trascrizione in extremis si è scontrata con il no della Corte. Ma probabilmente non sarebbe cambiato niente. Resta il fatto che un’altra volta - e in modo eclatante - bisogna registrare la disparità di approccio all’allarme terrorismo tra chi fa le indagini e chi fa le sentenze.

Ilhami e Ghadif erano assidui frequentatori del centro islamico «Pace» di Macherio, in Brianza. Alla luce del sole, predicavano la fratellanza.

Nella loro auto, intercettati dal gps della Digos, non parlavano d’altro che di martirio, di vergini, di attentati, e di italiani da sterminare un po’ ovunque: caserme, scuole, ospedali, supermercati, commissariati di polizia. Chiacchiere e basta, dice la sentenza di ieri. A pronunciarla, un giudice non noto per la sua indulgenza: Ghitti, che quando era gip a Milano firmava gli arresti chiesti dal pool Mani Pulite.

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