«Noi maestri compositori siamo come l'api, si sugge dove si trova il dolce e il buono». Giacomo Puccini scriveva al compositore e critico musicale torinese Carlo Cordara in merito ad un'eventuale collaborazione con Giovanni Pascoli: «io ho Tosca per le grinfie e per un anno e forse più non posso né devo occuparmi d'altro. E dopo? Lo sa Iddio! Solo le dirò che abbandonerò difficilmente i miei collaboratori Illica e Giacosa Però se il Sig. Pascoli avesse delle idee () con tutto il piacere mi metterò in comunicazione con lui». Il suo miele Puccini lo trovò, anche per la successiva opera Madama Butterfly, nel duo Illica-Giacosa, evitando collaborazioni blasonate con D'Annunzio e Grazia Deledda. Con loro formò un trio, anzi un quartetto tumultuoso (c'era anche l'editore Giulio Ricordi), che lasceranno non pochi risentimenti, soprattutto con Illica, irritato dalla soppressione nel finale del cosiddetto Inno Latino, rifatto innumerevoli volte, di cui Puccini musicò soltanto un lacerto («Trïonfal di nova speme l'anima freme»). Si trattava di uno slancio retorico i cui accenti collegavano Tosca e Cavaradossi allo spirito dell'antica Roma. Illica era il responsabile dell'impianto drammaturgico e non voleva rinunciare alle sue quasi sempre ottime idee. La sua sintesi del dramma originale di Sardou è mirabile: sopprime l'eccesso di racconti che narravano il passato dei suoi personaggi: «Mario Cavaradossi, pittore dalle simpatie liberali, nato a Parigi da padre romano e madre francese, allievo dell'artista rivoluzionario Jacques-Louis David, richiamato a Roma un anno prima per sistemare gli affari relativi all'eredità del padre defunto e trattenuto dal suo amore per Tosca; Cesare Angelotti, console dell'effimera Repubblica Romana del 1798, da poco evaso da Castel Sant'Angelo, dove era stato imprigionato su istigazione di Emma, Lady Hamilton, che lui aveva «protetto» quando le faceva la prostituta nei Vauxhall Gardens; il barone Vitellio Scarpia, capo della polizia per metà bigotto e per metà satiro, che rischia la vita se non sarà capace di riacciuffare il fuggiasco (nel libretto stupendamente descritto dal declamato di Cavaradossi: Bigotto satiro che affina colle devote pratiche la foia libertina e strumento al lascivo talento fa il confessore e il boia!); e finalmente Floria Tosca. Un tempo guardiana di capre sulle colline nei dintorni di Verona, poi accolta ed educata da suore benedettine. Cimarosa, in visita al convento, aveva udito la sua voce nel coro e aveva ottenuto il nullaosta papale per farle studiare canto» (così il biografo pucciniano Julian Budden).
Vinto il braccio di ferro con Illica per evitare che «l'ultima trionfalata» diventasse una delle «solite sbrodolature amorose», a Puccini servirono altre «mani». Una ecclesiastica: l'amico sacerdote don Pietro Panichelli gli fornì «qualche verso da brontolar nel Te Deum» (gli ultimi versi dell'Angelus, che il Capitolo e la Folla giaculano «con voce parlata» alla benedizione del cardinale). L'effetto del vociare chiesastico «parlato» di contrasto al fortissimo cantato da Scarpia che si abbandona al desiderio carnale nel profumo d'incenso: illanguidir d'amore è formidabile.
All'amico d'infanzia Alfredo Vandini che lavorava alle Privative del Ministero delle Finanze, Puccini chiese di reperire un poeta vernacolare - essendo Cesare Pascarella assente in America - perché «nell'ultimo atto ci ho un ragazzo pastore che colle pecore passa (non si vede, si finge) sotto il castello» Luigi Zanazzo, scovato da Vandini, sarà l'autore dei versi romaneschi («Io de' sospiri, te ne rimanno tanti», ecc.) cantati dal Pastore-voce bianca, prima di una delle più belle pagine dell'opera, l'alba su Roma, fra i rintocchi delle campane che suonano il mattutino a varie distanze spaziali.
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