Soldi buttati, chi sono gli altri colpevoli

Apri il vaso di Pandora dei fondi comunitari e scopri un coacervo di idiozie burocratiche e isterie politiche, malaffare e italianissima inefficienza.
Ad oggi, le spese certificate dalla Ue – vale a dire quelle già erogate dalle Regioni a terzi e riconosciute come rispondenti ai regolamenti e ai criteri comunitari – superano di poco il 6 per cento del totale dei fondi programmati per il ciclo 2007-2013. E se i tempi per la costruzione dei diversi Por (Programmi operativi regionali) e la loro approvazione da parte del ministero dello Sviluppo economico e poi della Ue sono stati accettabili (tutti più o meno tra fine 2007 e inizio 2008), i ritardi e gli inghippi hanno fatto capolino appena dopo. Quali sono e a chi sono addebitabili? A leggere documenti ufficiali e dichiarazioni pubbliche, non ci si raccapezza molto, in verità. E la cosa migliore è chiedere un quadro dettagliato a qualche esperto del settore.
Semplificando, ma nemmeno troppo, emergono almeno quattro «sorgenti» di ritardo. La prima, la definizione delle priorità e delle caratteristiche generali di ogni bando di gara con il quale la Regione erogherà i fondi. S’imbastiscono complesse conferenze dei servizi con tutti gli stakeholder (imprese, sindacati, enti locali, associazioni varie), che a volte impiegano mesi prima di arrivare ad un accordo e che sistematicamente lasciano insoddisfatti questo o quel portatore d’interessi.
Il secondo nodo riguarda l’approvazione del bando, che in definitiva spetta alla parte politica. Molto spesso gli assessori regionali (più o meno compulsati dai consiglieri regionali, dai partiti o da loro grandi elettori) chiedono rivisitazioni alle bozze dei bandi, propongono nuove e non troppo utili conferenze dei servizi, ritardano la pubblicazione dei bandi. Il tutto finché l’esito non corrisponde ai loro desiderata. Ad ogni cambio di maggioranza politica, di giunta o anche solo di assessore, tutto si rallenta e molto riparte inspiegabilmente – o forse molto spiegabilmente - da capo. Un funzionario di una Regione meridionale, chiedendo l’anonimato, sintetizza in modo colorito: «Un nuovo assessore, di fronte alla bozza di un bando, vuol capire se lo stesso è cucito addosso a qualcuno in particolare. Ti fa domande, vuol capire cosa si può cambiare per favorire una certa impresa a lui cara o la provincia in cui ha preso i voti...».
Approvata la gara, ecco il consueto freno italico della burocrazia: tra la pubblicazione di un bando, la pubblicazione della graduatoria dei beneficiari, l’erogazione dei fondi e la certificazione Ue delle spese possono passare anche 18 mesi. «Certo, anche la normativa nazionale non aiuta», riflette Federica Raggi, esperta nel campo della programmazione e delle politiche comunitarie, «sarebbe auspicabile una nuova stagione di semplificazione amministrativa. Anche se nessuno può negare che il paragone tra questi tempi e quelli del mercato è impietoso».
Raggi indica il quarto inghippo: «All’indomani della pubblicazione della graduatoria di un bando, puntuali arrivano i ricorsi degli esclusi, facili da fare e troppo poco costosi». Tra sospensive del Tar e il tempo che gli uffici hanno da dedicare ai ricorsi, scorrono inesorabili le pagine del calendario.
Va detto che ai ritardi politico-burocratici delle Regioni si somma l’incertezza prodotta negli ultimi due anni dal governo nazionale. I continui tagli operati alle risorse del Fondo per le aree sottoutilizzate (Fas) e la sofferta riprogrammazione delle risorse nazionali del Fondo, avviata con il decreto-legge n° 112 del 2008, hanno avuto come effetto quello di rallentare l’avvio di diversi programmi comunitari, considerata la regola della compartecipazione statale alle spese finanziate da Bruxelles. «E di questo – commenta un dirigente calabrese – è bene che lo stesso ministro Tremonti faccia seria autocritica. Ognuno faccia la sua parte». Giusto, anzi sacrosanto.
Il paradosso in questo campo è la regola: per il ciclo di programmazione 2000-2006, a leggere asetticamente i numeri, le regioni italiane (e quelle meridionali in particolare, essendo a loro destinato il grosso delle risorse) sembrerebbero «virtuose». Formalmente hanno usato tutte le risorse a loro disposizione, andando addirittura in overbooking, spendendo circa il 124 per cento di quanto disponibile (cioè aggiungendo soldi propri al finanziamento dei progetti comunitari).
Ammesso che la spesa pubblica sia in grado di produrre sviluppo, e chi scrive nutre forti dubbi a riguardo, questa apparente «missione compiuta» presenta in realtà più ombre che luci. Con l’accondiscendenza di Bruxelles, che ha concesso proroghe e ha sovente chiuso un occhio, le Regioni hanno sì utilizzato tutti i fondi disponibili, ma per evitare di perderne una parte hanno spesso «infilato» nei progetti spese poco coerenti con la programmazione e gli obiettivi di sviluppo. In gergo si parla di «progetti sponda», originariamente finanziati con fondi di diversa provenienza ma utilizzati successivamente nell’ambito della programmazione comunitaria.
C’è di tutto: dalla manutenzione delle strade a discutibili corsi di formazione per dipendenti pubblici, passando per acquisti degli enti. E secondo il rapporto annuale della Svimez, non di piccole «furberie» stiamo parlando: alla fine del 2008 i progetti sponda sarebbero stati pari al 44,5 per cento del totale del quadro comunitario di sostegno. Insomma, quasi la metà dei fondi 2000-2006 ha finito per finanziare progetti avulsi dai Por. E ciò è accaduto perché le Regioni, cronicamente in ritardo e con il rischio di perdere il grano, hanno preferito impiegarlo in interventi frammentati e dispersi localmente. In parte, chi più chi meno, lo hanno sprecato (magari gonfiando anche qualche retribuzione dirigenziale).


Dal settennato passato a quello in corso, l’andazzo rischia insomma di essere drammaticamente lo stesso: pietire qualche proroga a Bruxelles e fare ampio ricorso agli italianissimi progetti sponda per non perdere i soldi.
Cambierà finalmente qualcosa?

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